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    NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA - IL FILOSOFO SLOVENO SLAVOJ ZIZEK E LA LEZIONE DEL COVID: "LO SMART-WORKING È LA FINE DELLA DIMENSIONE SOCIALE DEL LAVORO. STIAMO MITIZZANDO L'ORIZZONTALITÀ, LE CRIPTOVALUTE, I BITCOIN. È LA LIBERTÀ A MISURA DI FACEBOOK, DOVE NEL NOME DELLA TRASPARENZA SI SONO IMPOSTI PIÙ FACILMENTE CHE NELLA REALTÀ NO VAX, MOLESTIE, RAZZISMO, SESSISMO. ABBIAMO BISOGNO DI PIÙ STATO E PIÙ COORDINAMENTO CONTRO LE CATASTROFI GLOBALI. IL PARADOSSO DEGLI ANTI VACCINO È CHE…"


     
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    Francesca Paci per "La Stampa"

     

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    La pandemia? È la prova generale delle catastrofi globali a venire. La politica? Deve riprendere la palla se non vuole soccombere al "tecnopopulismo" che, da Mario Draghi a Emmanuel Macron, impone un modello di governance né di destra né di sinistra ma a forte vocazione demagogica.

     

    Lo Stato? Con buona pace dei no vax e dei loro maître à penser liberali, torna in scena oggi come l'unico garante affidabile della salute pubblica e il solo capace di coordinarsi a livello internazionale.

     

    Ne ha per tutti Slavoj Zizek. Paradossale, lucido, irriverente, il filosofo sloveno ragiona con La Stampa del long Covid sociale, il game changer a cui ha dedicato il suo ultimo libro, "Virus" (Ponte alle Grazie).

     

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    A Lubiana, dove vive, si respira, come ovunque, un'aria apatica: «La paura ha lasciato il posto alla depressione. Nella consapevolezza della nostra impotenza, godiamo avidi l'attimo fuggente. Ma è un carpe diem disperato».

     

    C'è un solo vaccino contro il male del tempo, dice: la politica. Appunto. Come appare il mondo alla luce della pandemia che sembra senza fine?

    «Una lezione importante che viene dagli ultimi due anni riguarda lo Stato. Nonostante molti liberal e molti pensatori di sinistra lo vedano come un'entità astratta di cui diffidare, lo Stato non è mai stato tanto necessario quanto oggi.

     

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    Ne abbiamo avuto bisogno contro il caos sanitario, contro la disoccupazione, per il coordinamento internazionale contro questa che è stata la prova generale delle catastrofi globali a venire.

     

    I miei amici della gauche francese hanno un bel celebrare le comunità locali: non sarà con quelle che ci salveremo dal cambiamento climatico né da qualsiasi altra crisi globale».

     

    Eppure in questi mesi alla disaffezione già forte nei confronti della politica s'è aggiunta una ostilità paranoica nei confronti della scienza, associata alle élite. La divaricazione sociale sui vaccini ha riattizzato le pulsioni anti-establishment?

    «Follia. A me pare che gli scienziati siano limpidi, che abbiano sempre dichiarato i loro dubbi, che, lungi dal cedere al dogmatismo, ripetano di sapere oggi quante cose non sapessero prima della pandemia.

     

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    La gente è sempre più scettica è vero, ma è un fenomeno che viene da lontano, la cui rappresentazione plastica è il "tecnopopulismo". Prendete il premier Draghi, è un ottimo esperto ma nel dirsi al servizio del popolo senza essere di destra né di sinistra è a suo modo un populista. Come Macron.

     

    La politica però non si può limitare alla tecnica, è altro. La pandemia è la prima crisi che colpisce la vita quotidiana e la reazione di molti è stata una serrata contro obblighi e divieti, il rifiuto ai cambiamenti necessari nella routine.

     

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    Gli "agambeniani", i discepoli del filosofo Giorgio Agamben, vivono in uno stato di diniego. Si dicono liberali ma è più complicato di così. Tendiamo a leggere sempre le rivolte popolari come rivolte per la democrazia e sbagliamo, le nuove proteste, dal Podemos prima maniera ai gilet gialli, esprimono scontento verso il sistema liberale e la loro disaffezione è difficile da tradurre in politica».

     

    Quando il virus sarà domato torneremo davvero liberi o saremo così abituati alle limitazioni da non vederle più?

    «Le persone sono ossessionate dalle misure restrittive e dai vaccini, imposizioni relativamente modeste, ma ignorano quanto siano invece controllate a prescindere dalla pandemia.

     

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    E non c'è bisogno di arrivare a Pegasus. Gli schermi degli smartphone e le app, a partire da Kindle, non monitorano solo cosa guardiamo ma per quanto tempo, come reagiamo, manipolano i nostri desideri e li organizzano.

     

    Il sommo paradosso sta nei no vax, che non fidandosi dello Stato fanno le loro ricerche su Google, dove il 99% delle informazioni sono manipolate e prolificano le peggiori teorie cospirative».

     

    I governi democratici devono dire sempre la verità ai governati o ci sono emergenze in cui è preferibile omettere?

    «Personalmente sto sempre dalla parte della verità. Spiegare le cose come sono può creare panico ma più la gente è confusa e più fa danni. Il problema per me non è tanto se i governi mentono o meno quanto se la gente vuole o non vuole ascoltare la verità, un'ipocrisia che non risparmia i liberal.

     

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    Ricordate Guantanamo? Nessuno sosteneva di non credere alle torture ma si minimizzava perché "così fan tutti": l'importante, in occidente, era non sapere».

     

    A più riprese nei suoi libri ha evocato l'urgenza di un nuovo comunismo internazionalista. È una variante della globalizzazione?

    «In qualche modo lo è ma in termini generali. Il guaio della globalizzazione impostasi quando Fukuyama anticipava la fine della storia non è il suo essere troppo globale ma il suo limitarsi all'economia ignorando la politica, il suo tradursi in un tribalismo di stati nazionali.

     

    Guardo la Cina comunista e globalizzata con preoccupazione, vedo un nazionalismo ideologico crescente che si fa le unghie contro gli uiguri e contro Hong Kong. La globalizzazione economica va in direzione del neo-nazionalismo e non si avvicina neppure un po' a quella culturale che auspicherei. Sono un utopista, ma ripongo ancora le mie speranze nell'Unione Europea, l'unica realtà che, seppur limitatamente, si occupa di diritti, di ambiente, di umanità e società».

     

    La pandemia è stata anche un laboratorio per lo smart working. È l'inizio della liberazione dalla schiavitù dell'ufficio oppure è una trappola di cui ci accorgeremo troppo tardi?

    «Il cosiddetto smart-working è la fine della dimensione sociale del lavoro. È una modalità tutta americana, il lavoro non più come valore ma come ideologia civica. Siamo sempre nell'ambito della medesima critica allo Stato autoritario, quella che mitizza l'orizzontalità, le criptovalute, i bitcoins. È la libertà a misura di Facebook, dove nel nome della libertà e della trasparenza si sono imposti più facilmente che nella realtà no vax, molestie, razzismo, sessismo».

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