Paolo Salom per il "Corriere della Sera"
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«Dichiaro che da questo momento in avanti ripudio mio figlio So Pyay Aung perché ha fatto cose imperdonabili contro la volontà dei suoi genitori. Non sono più responsabile delle sue azioni». Firmato: Tin Aung Ko, il papà.
Queste parole sono state pubblicate sul giornale di regime Myanma Alinn: un messaggio che si aggiunge a centinaia simili nel contenuto che da mesi escono quotidianamente sulle pubblicazioni fedeli alla giunta militare del Myanmar (ex Birmania).
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Un fenomeno che riflette una realtà sconfortante: la repressione, a un anno dal colpo di Stato del generale Min Aung Hlaing che ha posto fine alla stagione democratica birmana, è ancora nel pieno della sua forza.
Tanto che le famiglie dei giovani che continuano a opporsi all'inevitabile sono costrette a tagliare i ponti con i loro stessi figli per evitare disastri ancora maggiori. Perché nel Paese del Sud-Est asiatico vige ancora una tradizione legata a un passato lontano: la responsabilità non è del singolo ma del clan.
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E non si tratta semplicemente di estendere lo stigma della «vergogna» ai parenti nel caso si commetta un reato o un'azione (come nel caso dei ribelli anti-giunta militare) considerata tale.
In Birmania le famiglie dei dissidenti vanno incontro, oltre alla pubblica disgrazia, a punizioni concrete come pene detentive, sequestri e confische di beni. La Reuters ha contato, dallo scorso novembre, quasi seicento annunci di questo tenore.
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«Quando ho letto le parole con le quali mio padre dichiarava di voler tagliare ogni legame con me - ha raccontato il giornalista dissidente So Pyay Aung dal suo rifugio al confine tra Thailandia e Birmania - mi sono sentito molto triste. Ma capisco che lo abbia fatto per evitare l'arresto o, peggio, di perdere la casa».
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Altri hanno reagito con minore comprensione. Come Lin Lin Bo Bo, un commerciante ora parte di un gruppo armato che, spiega sempre alla Reuters, è scoppiato in lacrime leggendo sul quotidiano The Mirror le parole firmate dalla sua famiglia dopo una «visita» da parte dei soldati: «Dichiariamo di ripudiare Lin Lin Bo Bo perché non ascolta quello che i suoi genitori gli dicono». Firmato: San Win e Tin Tin Soe.
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Lin Lin Bo Bo sapeva che sarebbe successo perché la madre gli aveva raccontato dell'irruzione da parte dei soldati. Ciononostante si è sentito tagliato fuori dalla sua esistenza.
«I miei compagni hanno cercato di consolarmi, mi hanno spiegato che le famiglie sono costrette ad agire in questo modo per evitare guai peggiori. Ma io mi sono sentito devastato».
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E questo, oltre agli effetti di propaganda, è probabilmente lo scopo dei generali, ancora alle prese con una resistenza al rovesciamento delle istituzioni democratiche che forse immaginavano di stroncare prima.
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Non che costringere le famiglie a pubbliche e umilianti dichiarazioni sia una novità. In occasione di altre rivolte, in passato, i militari hanno spesso usato simili tattiche. La differenza, in questa occasione, è l'ampiezza del fenomeno e la risonanza amplificata dalla pervasività di Internet.
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La disperazione del momento è ben fotografata dalle parole di Zaw Min Tun, un portavoce militare che, rispondendo a una domanda sul tema, ha candidamente ammesso come gli autori di questi messaggi, se implicati in «azioni sovversive», potrebbero comunque subirne le conseguenze.
Come dire che, vista l'arbitrarietà di accuse e arresti, nessuna presa di distanza, per quanto netta e dolorosa, basta a garantire le famiglia dei dissidenti. Tiri un sasso? Sappi che tuo padre, tua madre o anche tuo nonno ne pagheranno le conseguenze.
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