AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE DAI LORO…
Gian Luca Pasini per “la Gazzetta dello Sport”
«Tutte le mattine mi chiedo cosa possiamo inventarci per fare sì che i giocatori italiani possano essere alla pari di chicchessia nel mondo. Senza complessi di inferiorità con nessuno. Questa è la nostra prossima sfida. Non siamo inferiori a nessuno». Julio Velasco coordinatore del settore giovanile maschile traccia un bilancio dopo questa prima parte della stagione: 6 manifestazioni giovanili giocate dall'Italia e 6 vittorie. Finora una stagione incredibile.
Velasco lei ci ha sempre creduto?
«Sì. Come ci credevo quando nel 1989 presi la Nazionale maschile o nel 1997 passai al femminile. Tutti mi dicevano che era impossibile. L'Italia ha grandi potenzialità che a volte non vengono giustamente valutate. Ero convinto allora e ne sono convinto oggi. Sia per il maschile che per il femminile. Poi si può vincere o perdere: dato che anche gli avversari fanno le cose per bene. Ho sempre considerato la pallavolo un movimento straordinario.
Il volley femminile, poi, rappresenta per le ragazze quello che per i maschi è il calcio. Ed è così a livello mondiale. Oggi sembra scontato, ma non lo era. Se a questo sommiamo il Club Italia e le società che investono sulle giovani, si capisce di che movimento stiamo parlando. Nel maschile avevamo una sfida più difficile: senza Club Italia (scelta che condivido, perché se togli 15 ragazzi al movimento, tutti della stessa età, crei un problema) e molti meno praticanti.
La Federazione doveva scegliere una strada diversa: dialogare con i club e lavorare in palestra tutta l'estate. Continuando a rafforzare le squadre soprattutto quando si vince. Cosa che stiamo facendo: c'è stato un buon lavoro di squadra fra Federazione, club e gli staff della Nazionali. Perché la sfida qui non era soltanto vincere, ma vincere con giocatori di prospettiva. Ragazzi che un domani potranno giocare in Nazionale seniores, Superlega...».
Velasco è contro l'assistenzialismo "giovanile".
«Lo dico da anni: se tratti i giovani da deboli, saranno deboli. Dobbiamo trattare i giovani avendo fiducia in loro: tutti. Figli, nipoti e giocatori. Dobbiamo avere fiducia che siano forti, anche a livello mentale. Poi gli va detta la verità: qui si fa sport di competizione, prevarranno i migliori. Il nostro compito è prepararli. Quello che noto e non è cambiato dagli anni 80, nei giovani italiani si notano molto più i difetti di quanto non si esaltino i pregi.
Cosa che in altri Paesi, come ad esempio la Polonia, non accade. E questo fa parte della cultura generale italiana, non solo dello sport. Ma quello che non può accadere è che i giovani di casa nostra non credano in loro stessi per primi. Questo è un tema centrale nei discorsi che faccio con loro».
Ma esiste un problema di italiani che giocano poco?
«Non è un problema clamoroso, ma sta aumentando. Soprattutto tenendo conto che oggi oltre alla federazione c'è il lavoro dei club. Ma non è vero che tutti poi trovano spazio in Superlega: il caso di Romanò è eclatante. E non è solo un problema che ci sono 4 stranieri in campo per ogni squadra, ma che l'Italia è il punto di arrivo di quasi tutti gli stranieri del mondo. Per i giovani italiani è più dura, ma non impossibile. La sfida è quella di creare giovani che possono reggere la concorrenza. Fisicamente, tecnicamente, mentalmente. E qualche risultato si è già visto: non solo con Michieletto, ma anche Rinaldi, Stefani, Porro, Catania. Bisogna continuare su questa strada».
Quando arrivò alla Nazionale puntò molto sulla fiducia ai giocatori: 30 anni dopo quel messaggio è cambiato?
«No. Bisogna sviluppare l'orgoglio, la fiducia, la competitività, senza superbia. Ne parlo spesso con gli allenatori. E' come si trattano gli atleti, come li correggi. Questo non vuole dire vinceremo sempre, ma che saremo sempre competitivi sì».
Qual è la difficoltà maggiore per portare i ragazzi che hanno vinto oggi al livello seniores?
«Credo che il gap sia fisico con i giovani stranieri. E sommare tante esperienze di gioco internazionale. Devono giocare di più e partite difficili. La differenza principale è che i giocatori dei paesi esportatori di atleti, come l'Argentina, a casa loro giocano e giocano le gare importanti. Il livello è più basso, d'accordo, ma le partite le fanno. Mentre nei paesi importatori di giocatori, come l'Italia, difficilmente i giovani giocano gare decisive».
Ma i giovani sono cambiati?
«Nella misura in cui anche noi siamo cambiati. Non vedo grandi rivoluzioni: vedo giocatori che hanno fame e voglia di allenarsi. E dopo il Covid anche di più. Non so perché c'è sempre questo pessimismo cosmico. Il che non vuole dire che non ci siano cose da cambiare o da correggere. E allora quello non deve diventare l'alibi, magari siamo noi che non sappiamo insegnare nella maniera giusta».
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