Claudia De Lillo per “la Repubblica”
La pubblicita di Adidas
Grandi, piccoli, all'ingiù, all'insù, acerbi, maturi, chiari, scuri, simmetrici, asimmetrici, dritti e storti. Sono 43 seni, in primo piano.
Le donne a cui appartengono sono volontarie che hanno aderito a una campagna squisitamente commerciale, sposando la causa della diversità e della body positivity. Si tratta dell'astuta pubblicità della Adidas, postata su Twitter e Instagram lo scorso febbraio. «Crediamo che i seni delle donne di tutte le forme e misure meritino sostegno e comodità », recitava lo spot. «Ecco perché la nostra gamma di reggiseni sportivi contiene 43 modelli, in modo che ognuna possa trovare quello giusto».
Le strade del marketing sono infinite. E la nudità, seppur ostentata e originale nella sua serialità, fa un rumore flebile. La notizia non risiede nel dispiegamento di seni (anche se, nella loro anatomica intensità, evocano più il termine medico "mammella" usato durante le visite senologiche) ma nelle reazioni.
Collezione Adidas reggiseni sportivi
La Advertising Standards Agency, la commissione nazionale che monitora la pubblicità nel Regno Unito, dopo alcune proteste, ha censurato la pubblicità. Malgrado alcuni abbiano tacciato la multinazionale tedesca di sessismo poiché lo spot ridurrebbe la donna a una sua parte, le motivazioni risiedono «nella nudità esplicita» che potrebbe risultare «in alcuni casi offensiva » e «inappropriata» soprattutto per i minori.
Torno a quella fotografia. Seni, tette, mammelle, tutti in fila, tutti diversi, organi ancor prima che corpi nudi. Innocui e potenti nella loro ostensione impudica, disarmata.
Al cospetto di quella carrellata, prima di tutto, istintivamente, mi sono cercata. Ebbene sì. Non mi sono interrogata, né indignata né offesa. Ho scorso i riquadri per trovare quello che mi somigliasse di più. Un punto per il marketing Adidas. Tra i commenti sotto il tweet incriminato, un padre ringrazia a nome delle proprie figlie sportive.
Collezione Adidas reggiseni sportivi 2
Qualcuno apprezza la promozione di una nudità non sessualizzata, altri si preoccupano per la sensibilità dei bambini, dimenticandosi che il primo sguardo della vita i più lo posano proprio lì, su un seno.
Abbiamo veramente paura di tante tette in fila? O ci disturba la possibilità di dissezionare il corpo femminile, di privarlo (finalmente!) delle sue implicazioni sessuali riducendolo a organo, carne, pezzo da contenere quando si corre, si salta, si gioca a palla? Chi ha ragione? L'agenzia inglese per gli standard pubblicitari in preda a uno slancio vittoriano o l'azienda che, nel nome di una buona causa, utilizza donne volontarie, e promuove, ben prima della loro diversità, i suoi reggiseni? La censura per definizione elimina il libero arbitrio e reprime la soggettività. Taglia corto, interviene per tutti quanti e sottrae al singolo la possibilità di indignarsi, di inorridire o di esultare con la propria testa.
Quell'immagine non è offensiva né minacciosa. Non umilia né ammicca. Ma non lascia indifferenti e induce alla riflessione sui corpi femminili. Può essere persino rassicurante, come lo è riconoscersi nello sguardo o nel corpo altrui. Fa uno sforzo sulla diversità e questo è quasi sempre apprezzabile.
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Tuttavia il marketing, che regna incontrastato su qualsiasi messaggio promozionale, è nella sua spietata efficacia, uno strumento manipolatorio e nell'innocuità di quei seni ostentati, resta la sensazione disturbante di un tradimento.
L'uso di una parte del corpo che non è neutra, ma fortemente simbolica e intrisa di rimandi sessuali, vanifica il presunto tentativo di promuovere la body positivity. E si fa certezza il sospetto che, se avessero pubblicizzato i 43 modelli di slip contenitivi per l'uomo sportivo, non avremmo visto altrettanti peni, nella loro variegata virilità, ma solo tante diverse mutande.
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