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Estratto dell’articolo di Federico Rampini per il “Corriere della Sera”
Dalle promesse ai fatti, la stretta dell’Olanda sulle proprie esportazioni di tecnologie per la produzione di microchip verso la Cina diventa esecutiva. Le misure restrittive annunciate a marzo per motivi di «sicurezza internazionale e nazionale» entreranno in vigore dal 1° settembre. È l’effetto di una pressione esercitata dall’Amministrazione Biden, che ha coinvolto anche il Giappone nella stessa strategia anti-cinese.
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[…] In base alle nuove norme, il colosso dei chip olandese Asml dovrà richiedere licenze specifiche per esportare le tecnologie per la produzione di chip impiegati anche nella costruzione di armi. L’adesione dell’Olanda era particolarmente ambita dagli americani perché l’Asml occupa un segmento di mercato strategico in questo settore, per bloccare l’ascesa della Repubblica Popolare nelle categorie più avanzate dei semiconduttori. Né si poteva dare per scontato a priori che il governo dell’Aia aderisse all’appello degli americani: dopotutto i Paesi Bassi sono una delle patrie originarie del «mercantilismo», rinunciare a un grande mercato di sbocco per le proprie esportazioni, come quello cinese, è un sacrificio.
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Sul fronte opposto questo conferma il prezzo che Xi Jinping sta pagando per avere appoggiato Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina. […] la strategia di contenimento con cui la Casa Bianca chiama a raccolta i propri alleati non avrebbe raccolto così velocemente le adesioni di Giappone e Olanda, se la leadership di Xi non fosse stata percepita come sempre più antagonista alle liberaldemocrazie.
Biden sta riuscendo in un’impresa che sarebbe stata impossibile pochi anni fa: compattare l’Occidente per stendere un cordone sanitario attorno alla Cina nelle tecnologie avanzate.
L’Asml olandese è una delle sole tre aziende mondiali che fabbricano «stampanti per microchip» di tipo molto avanzato. Un altro produttore è il Giappone, che aderisce alla stessa strategia americana.
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Questo significa che l’industria cinese dei semiconduttori si vede privata dei macchinari di nuova generazione, indispensabili per adeguare la qualità e la potenza dei microchip che sforna dalle sue «fabs» (così si chiamano in gergo gli impianti di produzione dei semiconduttori, le memorie e circuiti integrati che rappresentano il sistema nervoso di ogni apparecchio elettronico e digitale).
Con l’adesione di Olanda e Giappone aumentano le chance perché l’embargo americano rallenti e ritardi l’avanzata cinese nei settori di punta. Si aggiunge alle politiche industriali (i sussidi statali del Chips Act) con cui l’Amministrazione Biden sta riportando sul proprio territorio una parte della produzione di semiconduttori.
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Tra coloro che si sono fatti attrarre dal mix di aiuti pubblici e pressioni politiche c’è il numero uno mondiale di questo settore, la taiwanese Tsmc che sta investendo 40 miliardi di dollari nella costruzione di un nuovo stabilimento in Arizona, insieme con la sudcoreana Samsung. La terza azienda che ha ripreso a costruire fabbriche di semiconduttori per rafforzare la propria capacità produttiva sul territorio degli Stati Uniti è autoctona, si tratta della californiana Intel. In questo settore la generosità dei sussidi messi in campo da Biden ha innescato un inizio di «re-industrializzazione» riportando sul suolo Usa capacità che erano finite in Asia. Oltre a depotenziare il ruolo della Cina questa strategia punta anche a rendere meno devastante per l’Occidente lo scenario di un’invasione di Taiwan.
A cementare l’accordo fra Washington, Tokyo e L’Aia, hanno contribuito anche le rivelazioni sulle forniture cinesi alla Russia dopo l’inizio della guerra in Ucraina e il varo delle sanzioni. […]