Estratto dell'articolo di Federico Rampini per corriere.it
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La sfida coinvolge quattro continenti
È in corso una competizione globale per controllare il litio, il metallo essenziale per molte tecnologie, a cominciare dalle batterie elettriche (sia quelle che usiamo nelle auto elettriche, che nelle pale eoliche). In questa gara una tendenza che emerge al momento è la seguente: l’America stringe accordi con l’Australia, che a sua volta cerca di divincolarsi dall’abbraccio della Cina; mentre Pechino vuole rafforzarsi in Africa e in America latina. Forse mi sfugge qualcosa ma anche in questo settore l’Europa mi sembra in ritardo, quasi che non abbia capito l’importanza della posta in gioco.
La Cina non lo possiede ma lo raffina a casa sua
Che il litio sia «il petrolio del futuro» lo hanno capito anche i sassi. Che la sua produzione sia dominata dalla Cina, pure. A volte però la percezione generale si ferma qui. E magari la posizione dominante della Cina viene scambiata come un fatto «naturale», simile alla dotazione petrolifera che l’Arabia saudita possiede nel suo sottosuolo. Invece non è affatto così.
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Di litio nel sottosuolo cinese ce n’è poco, circa l’8% delle riserve mondiali. Il fatto è che la Repubblica Popolare – con una lungimiranza che è mancata dalle nostre parti – si è accaparrata i diritti di estrazione nei territori altrui, o contratti di fornitura a lungo termine da parte di miniere situate letteralmente agli antipodi. Inoltre la Cina stessa si è assunta il compito di lavorare, raffinare, il minerale grezzo che come tale è inutilizzabile. Questa lavorazione del terriccio contenente litio è un mestiere redditizio ma molto inquinante: ragion per cui gli occidentali in nome dell’ambientalismo hanno deciso che va fatta il più lontano possibile.
L’importanza dell’Australia
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Nel nuovo contesto geopolitico dipendere dalla Cina per tutte le nostre tecnologie verdi è una follia. Perciò Australia e Stati Uniti stanno lavorando di concerto per riprendersi il controllo della «catena del litio». Nessun altro Paese al mondo ha un ruolo decisivo quanto l’Australia: attualmente dalle sue miniere si estrae il 53% del litio mondiale. Ma quasi tutto viene venduto alla Cina. Per la precisione, come ricostruisce un’inchiesta del New York Times, il principale estrattore di litio che è la società Pilbara Minerals, dalle sue miniere nell’Australia occidentale ricava un terriccio metallifero dal quale si ricava lo spodumene, un minerale che contiene alluminio e litio. Il contenuto di litio è il 6% del minerale grezzo. Lo spodumene viene venduto attualmente a 5.700 dollari per tonnellata. Ma la raffinazione finale, quella da cui si ottiene il litio da usare nelle batterie, avviene in impianti cinesi, dopo che la materia prima, cioè lo spodumene, è stato trasportato via mare nella Repubblica Popolare.
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Pechino si rifà in Africa e America latina
Restando al litio, però, la Cina avverte il pericolo che il suo semi-monopolio attuale le stia scivolando dalle mani. Reagisce di conseguenza. Negli ultimi due anni le aziende cinesi del settore hanno investito 4,5 miliardi di dollari per comprare miniere di litio nel resto del mondo. Visto che l’Australia si chiude, ora l’appetito cinese si concentra in Africa e in America latina. Gli investimenti cinesi più importanti nelle miniere di litio sono avvenuti in tre paesi africani (Mali, Nigeria, Zimbabwe) e due paesi latinoamericani (Messico, Cile).
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Non sono zone del tutto tranquille. In Mali e in Nigeria gli investitori cinesi devono affrontare problemi di sicurezza, di fronte alle minacce del terrorismo jihadista. In Messico e in Cile le incognite sono politiche: su tutta l’America latina soffia un vento di nazionalismo populista, con molti governi di sinistra che parlano di nazionalizzare il litio perché vogliono il controllo delle proprie risorse minerarie. E’ un remake di ciò che accadde nel mondo arabo con il petrolio negli anni Sessanta. Il Cile insieme a Bolivia e Argentina discute la creazione di una «Opec del litio», un cartello oligopolistico sul modello di quello petrolifero. La Cina dovrà imparare a navigare tra queste tendenze politiche locali, così come gli occidentali dovettero adeguarsi ai diktat dell’Opec a partire dal 1973.
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