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    LETTA A DUE PIAZZE - ORA CHE IL "CAMPO LARGO" E’ DIVENTATO UN CAMPO SANTO, ENRICHETTO PENSA A UN NUOVO ULIVO: “L'ULTIMA COSA DA FARE È ENTRARE NEL DERBY DI MAIO-CONTE” - COME DAGO-RIVELATO LA SUA SPINA NEL FIANCO È FRANCESCO BOCCIA CHE SPINGE PER RINSALDARE L’ALLEANZA CON CONTE (CHE A SUA VOLTA TEME DI FINIRE INFILZATO DALL’ALA RIBELLISTA RAGGI-DI BATTISTA) - CHI SUSSURRA ALLE ORECCHIE DI PEPPINIELLO (DA BETTINI A D'ALEMA) PENSA CHE L'AVVOCATO DEL POPOLO DEBBA METTERSI ALLA TESTA DI UNA FEDERAZIONE SUL MODELLO DI QUELLA DI MÉLENCHON – IL TIMORE NEL PD E’ CHE…


     
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    Annalisa Cuzzocrea per “la Stampa”

     

    letta conte di maio letta conte di maio

    La successione degli eventi lascia increduli. Martedì mattina il consiglio nazionale del Movimento 5 stelle si era riunito con almeno due vicepresidenti di Giuseppe Conte pronti a strappare, a dire «basta così non si può andare avanti, stare al governo ci danneggia». Stesso posto, via di Campo Marzio a Roma, 24 ore dopo: le dichiarazioni sono opposte.

     

    Il leader M5S si prepara ad andare in tv - lo ha fatto poi a Otto e mezzo - per dire che il suo sostegno al governo è pieno e soprattutto, è l'accusa che gli ha fatto più male, che il suo atlantismo non può essere messo in discussione. E così tutti i dubbi sulla risoluzione parlamentare che consente al governo di inviare armi all'Ucraina senza alcuna nuova autorizzazione delle Camere, sulla linea tenuta da Draghi nei consessi europei, sono scomparsi come per incanto nell'arco di una notte.

    GIUSEPPE CONTE CON ENRICO LETTA GIUSEPPE CONTE CON ENRICO LETTA

     

    A compiere il miracolo sono stati, fuori da ogni previsione, lo strappo di Luigi Di Maio e la sanguinosa scissione preparata e portata avanti dal ministro degli Esteri. Perché il quadro dipinto dai fuoriusciti, quello di un partito politico che coltiva ambiguità sulla collocazione internazionale dell'Italia e che - per dirla senza troppi infingimenti - fa più gli interessi russi che quelli dell'Ucraina, è molto pericoloso per quel che resta del Movimento.

     

    Significherebbe consegnarlo alla posizione ribellista di Alessandro Di Battista (ancora fuori) e Virginia Raggi (ancora dentro). Di certo, lo allontanerebbe dal Pd e dalla coalizione che - per quanto con mille difficoltà - garantisce all'ex premier un orizzonte istituzionale.

     

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    E così ieri è andata in scena una sorta di indietro tutta, prima con le dichiarazioni del ministro dell'Agricoltura Stefano Patuanelli, poi con quelle della viceministra dello Sviluppo Alessandra Todde: «La permanenza nel governo non è in discussione».

     

    L'unico a esprimere dubbi è Stefano Buffagni, ma una nota del Movimento smentisce immediatamente le parole che il deputato M5S aveva consegnato ai cronisti e quelle filtrate dalla riunione. Che è stata, a detta di tutti i partecipanti, parecchio festosa: «Io non prego nessuno per restare - ha detto Conte - chi è andato via non crede nel progetto che abbiamo avviato ed è meglio non ci sia più». Anzi, aggiunge: «Se qualcuno vuole seguirli lo faccia subito». L'idea è quella di navigare più leggeri, senza la zavorra di chi remava contro.

    Ma navigare verso dove? Il punto è questo e c'è una cosa che il leader M5S e i suoi - a partire dal presidente della Camera Roberto Fico che ieri lo ha volutamente raggiunto per un caffè - non vogliono farsi scippare: l'alleanza con il Pd.

     

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    Così è partita in queste ore l'operazione: «Scegli me», sia da parte dell'ex premier che da quella del ministro degli Esteri. Il campo, più che largo, in questo momento è sbrindellato. Ma una cosa è certa: tutti cercano il Pd. Lo fa Di Maio, che guarda tanto al movimento del sindaco di Milano Beppe Sala che a figure di amministratori come Stefano Bonaccini in Emilia Romagna o Dario Nardella a Firenze. E lo fa Conte, che martedì ha sentito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e che, nell'ultima riunione con i suoi, ha stabilito che non è lo strappo che bisogna cercare.

     

    Ma un modo di stare dentro l'alleanza e dentro il governo rafforzando la propria identità. «La verità è che il magnete è il Pd», diceva ieri Enrico Letta. Quel che pensano, al Nazareno, è che se l'operazione di Di Maio dovesse funzionare potrebbe venirne perfino del bene. Perché divisi i due mondi a 5 stelle - quello moderato e quello con venature populiste - potrebbero raccogliere più voti di quanti ne avrebbero raccolti senza scindersi. Considerato che stavano perdendo in media un punto al mese. Un'emorragia a cui qualcuno pensava di porre rimedio uscendo dal governo e lasciando ai dimaiani tutti i compromessi necessari per restarci dentro, prima che intervenisse un nuovo senso di realtà.

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    Se la legge elettorale non cambia in senso proporzionale, le alleanze sono vitali e l'unica possibile in questo momento è con il Pd. Stesso ragionamento tra i seguaci di Di Maio: avranno pure già incassato il sostegno di Toti e Brugnaro, ma non è a quello che puntano. C'è una vasta area di centro in cui pascolare. Con l'obiettivo dichiarato di sostenere il più possibile Mario Draghi, magari anche dopo la fine di questa legislatura. Questa soluzione è considerata mortale da molti, a sinistra del Pd.

     

    Chi sussurra alle orecchie di Conte - da Goffredo Bettini a Massimo D'Alema - pensa che il presidente M5S dovrebbe mettersi alla testa di una federazione sul modello degli Insoumis di Mélenchon, cercando di tenere dentro Articolo 1, Sinistra italiana e quel che resta di Italia dei Valori e Verdi. Con l'intento di essere competitivi nei collegi e di strappare al Pd quel pezzo di sinistra che invece (basta guardare le mosse di Roberto Speranza) sembra pronto a rientrare. Questa soluzione avrebbe un altro lato positivo: quello di poter più facilmente aggirare la regola del doppio mandato. Che molti hanno raccontato come mortale per Di Maio, ma che ha invece scombinato i piani di Conte.

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    Il presidente M5S aveva pronto un quesito con una deroga sul modello di quella esistente nel Pd: il limite dei mandati (nel Pd sono tre) poteva essere derogato fino al 10% dei parlamentari eletti nella tornata precedente.

     

    Il post di Grillo e il congelamento del voto hanno mandato tutto all'aria. Ieri durante la riunione Nunzia Catalfo lo ha chiesto proprio a Conte: «Come facciamo con Cancelleri? Se non cambiamo la regola non può candidarsi alle primarie in Sicilia». In cambio di quella possibilità, dicono nei 5S, l'ex migliore amico di Di Maio non lo ha seguito nella nuova avventura. Dal leader nessuna risposta. Se volesse forzare, dovrebbe affrontare di nuovo Grillo. Ma Conte il temporeggiatore non ne ha alcuna voglia.

     

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    2 - LETTA, NO AL DERBY DI MAIO-CONTE «IL PD SI ALLEA SUI PROGRAMMI»

    Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera”

     

    Martedì 21 giugno: la scissione 5 Stelle è alle porte, Enrico Letta chiama Carlo Calenda. Certo, il segretario dem e il leader di Azione domani devono gestire un comizio insieme a Lucca, quindi sentirsi sarebbe normale, se non fosse che da tempo l'interlocuzione tra i due è interrotta.

     

    È un segnale, che vale più di tante frasi di rito: da adesso in poi i 5 Stelle, o quel che resterà di loro, non sono più i partner privilegiati dei dem. Se non altro perché il Pd dovrà destreggiarsi tra contiani e scissionisti. Letta, intervistato a «Porta a porta», lo dice in politichese: «Rifiuto l'idea che si debba partire dalle alleanze. Si parte dai programmi».

     

    Con i suoi è più esplicito: «Il campo largo rischia la balcanizzazione». È stato il suo primo commento. Seguito subito da una raccomandazione: «L'ultima cosa da fare adesso è entrare nel derby Di Maio-Conte. È un bene che entrambi dichiarino di considerare centrale il dialogo con il Pd e con il centrosinistra. Comunque di alleanze parleremo dopo i ballottaggi». È il sigillo sulla fine dell'alleanza privilegiata con Conte.

    BEPPE GRILLO - GIUSEPPE CONTE - LUIGI DI MAIO - BY MACONDO BEPPE GRILLO - GIUSEPPE CONTE - LUIGI DI MAIO - BY MACONDO

     

    In tv aggiunge: «L'alleanza non deve essere una somma aritmetica di sigle ma un progetto comune. In un contesto politico balcanizzato, non solo nel centrosinistra, l'unica certezza è il nostro ruolo centrale». È «dai programmi che si deve partire», «con il Pd come perno». Poi chi ci sta, ci sta: da Di Maio, a Conte, a Calenda, a Renzi e alle alleanze civiche. L'ex premier resta un futuribile alleato, ma i dem non lo inseguono più come prima. E' la fine del «campo largo» così come è stato inteso finora. E infatti dalle parti di Letta si parla ormai di «Nuovo Ulivo».

     

    Dopo il flop grillino delle amministrative un pezzo del Pd era già su questa linea. La esplicitava Alessandro Alfieri, portavoce di «Base riformista»: «È archiviata la special relationship con M5S». Poi è chiaro che il segretario dem non può essere così netto, ma a Letta è altrettanto chiaro che affidarsi soltanto a Conte potrebbe essere esiziale per il Pd.

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    Letta racconta di aver parlato sia con l'ex premier che con Di Maio, ricordando loro che «l'unità è un valore» e ammette di non essere stato «colto di sorpresa» dalla scissione. Questo non significa che il quadro politico non sia preoccupante, tant' è vero che il leader pd si augura che «la scissione non avvantaggi la destra».

    Ma nei dem c'è a chi non dispiace la scissione. Dice Marcucci:« Calenda, Renzi, Di Maio offrono un ancoraggio più solido di Conte». E su quali siano le reali intenzioni dell'ex premier ci si interroga anche al Nazareno. Il timore è che punti a giocare una partita in proprio, improvvisandosi come il Mélenchon nostrano. «Da noi non funzionerebbe, sarebbe un esercizio letterario più che un'ipotesi politica», afferma secco Luigi Zanda.

    GIUSEPPE CONTE LUIGI DI MAIO GIUSEPPE CONTE LUIGI DI MAIO

     

    Dunque per il Pd il quadro è cambiato. Non si va più appresso a Conte, anche se si sta attenti ad agire con diplomazia. Lo spiega Enzo Amendola: «La prospettiva delle elezioni porterà a delle scelte. Noi siamo il partito maggiore del fronte progressista e dell'alleanza per il cambiamento e abbiamo una responsabilità non di mediazione, ma di scegliere un indirizzo». E lo stesso Zingaretti, promotore del rapporto con i 5 Stelle, ora cambia rotta: «È finito il tempo della cultura maggioritaria. Si rafforzano le identità. Ci vuole il proporzionale per riorganizzare il sistema politico». Con buona pace dell'alleanza giallorossa dalle magnifiche sorti e progressive.

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