Paolo Baroni per “la Stampa”
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Il blocco? Ci costa 47 miliardi di euro al mese, stima la Svimez. Il 3,1% del Pil o se vogliamo 788 euro a testa ogni mese, 951 al Centro-Nord e 473 al Sud. Comprensibile dunque che soprattutto il mondo delle imprese spinga per una rapida ripartenza. La riapertura delle attività dopo il lockdown imposto per fronteggiare l' emergenza coronavirus dovrà però tenere conto di almeno tre questioni: il grado di esposizione verso malattie e infezioni, la vicinanza fisica dei lavoratori e l' indice di fattibilità di lavoro da remoto.
L' Inapp, l'istituto nazionale per le politiche pubbliche, analizzando un paniere composto da 800 professioni, ha stilato tre distinte «liste» utili per pianificare la cosiddetta «fase 2». «Una volta passata l' emergenza sanitaria va considerato che esistono settori economici dove il rischio di contagio, dovuto alla prossimità fisica, appare più basso di altri e che quindi possono ripartire gradualmente senza aumentare, o aumentando di poco, il rischio di contagio, mentre altri presentano maggiori difficoltà e quindi potrebbero continuare a lavorare utilizzando le formule di telelavoro o smart working», spiega il presidente dell' Inapp Sebastiano Fadda.
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Le figure più a rischio In particolare le figure professionali più esposte al rischio di infezioni e malattie, oltre al settore sanitario la cui attività in tempi di epidemia non può certo essere sospesa, si trovano nel settore dell' istruzione pre-scolastica e degli asili nido, che invece in questa fase figurano tra i comparti che hanno interrotto temporaneamente la loro attività. Alle loro spalle studi odontoiatrici, farmacie, bar e quindi commercio di calzature, addetti a corsi sportivi o ricreativi, commercianti di giocattoli, profumerie e negozi di cosmetici.
La classifica sulla vicinanza fisica dei lavoratori, che come sappiamo aumenta il rischio di contagio tra i lavoratori, vede prevalere il settore dei servizi a cominciare da quelli veterinari e ospedalieri, a seguire studi odontoiatrici, assistenti residenziali, medicina generale, istruzione prescolastica, medicina specialistica, strutture di assistenza, asili nido e strutture psichiatriche.
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Quanto alla manifattura, in larga parte sottoposta a fermo delle attività, questo comparto occupa la maggior parte dei lavoratori tra il 30 e l' 80% di prossimità fisica, mentre l' agricoltura, che fornisce beni necessari e per questo non ha obblighi rispetto al lockdown, rappresenta la fetta più grande di occupazione con poca o nessuna prossimità fisica.
Chi può «telelavorare» di più Sul lavoro da remoto l' Inapp ha messo a punto un indice composito misurando innanzitutto il lavoro al computer e quindi altre voci come il tempo richiesto per discussioni faccia a faccia, l' uso o meno di macchinari e attrezzature, il tempo passato in piedi o la necessità di interagire in prima persona con clienti esterni o col pubblico ed il risultato è che i settori dove è maggiore la propensione al telelavoro e al lavoro agile, sono le attività professionali, scientifiche e tecniche (indice 65,5), quelle finanziarie ed assicurative, la pubblica amministrazione (55,3), la maggior parte dei servizi professionali, ovvero tutti i settori che non sono stati coinvolti dai decreti di sospensione.
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Ma quanto pesa in termini economici il lockdown? Secondo la Svimez, l' Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, ci costa 47 miliardi al mese: 37 al Centro Nord e 10 al Sud. Oggi infatti 5 impianti su 10 sono fermi ed il blocco colpisce duramente soprattutto il Nord e quasi indistintamente industria, costruzioni, servizi e il commercio. In totale per la Svimez «sono fermi» circa 9,2 milioni di lavoratori privati e 2,5 milioni tra lavoratori autonomi e partite Iva, i più esposti allo choc economico in corso.