DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano”
Se fate la prova-Marzullo, «impressioni all’uscita dalla sala», agli spettatori dell’ultimo film di David Fincher, Gone girl: l’amore bugiardo, la risposta più frequente è che si tratta di un giallo. Lei, Rosamund Pike, che interpreta la mantide Amy, è bionda come Kim Novak ne La donna che visse due volte o Simone Signoret ne I diabolici. Biondezza uguale colpevolezza. Fincher si rifà ai modelli: anche qui una donna bugiarda, doppia, Eva con la lingua biforcuta del serpente.
Ma dove il film, come il libro di Gillian Flynn da cui è tratto, si discosta dal classico schema di patto di sangue tra un criminale maschio e una femmina immorale, sta nel fatto che il maschio non è un criminale, ma è criminalizzato dai media a loro volta imbeccati da Amy. L’alleanza venefica, il patto di sangue non è più tra un uomo e una donna, ma tra una donna e i giornalisti.
COVER LIBRO FLYNN AMORE BUGIARDO
Forse è per questo che Fincher, in un’intervista all’Espresso, in modo un po’ sorprendente ha descritto il suo film come una satira. Satira contro le troupe che si accampano nel giardino di Nick, il marito di Amy, scomparsa dopo aver lasciato tracce di violenze nel nido domestico e un diario fin troppo smaccatamente accusatorio nei confronti di Nick.
Se per la ragione un’accusa troppo evidente puzza di bruciato e sa di macchinazione, per i media è il foraggio che può far partire una campagna di «vampirizzazione» come la chiama Fincher, a spese della vittima che se vuole sopravvivere deve lasciarsi vampirizzare, consentire ai talkshow di succhiargli l’ultima stilla, andare ai microfoni e battersi il petto, rivelare, come fa Nick, di essere stato un pessimo marito, ammettere la relazione extraconiugale, perché la sua sopravvivenza sta nel fatto che, per quanto egli sia «l’uomo più odiato d’America» e un sospetto femminicida, è proprio un femminicida, sia pure sospetto e potenziale che fa comodo alle domatrici di talkshow, alle neofemministe, alle sociologhe e alle altre miracolate opinioniste delle pseudoscienze intimidatorie.
E allora Gone girl o L’amore bugiardo per usare il titolo italiano da saggio di Galimberti, non è solo un giallo, sia pure del livello sublime di Hitchcock o Clouzot: fare confronti non ha senso, perché Fincher gioca tutt’altra partita. Ci parla della nostra società, che è, lo sappiamo, la società ossessionata dal successo, soprattutto del successo etico, fruttifero in termini di «onore», «rispettabilità», e perfino «normalità», perché Amy, alla fine del film, non per caso annuncia di essere incinta, prospettando il miraggio della famiglia modello, dopo che lo spettatore ha apprezzato tutte le nequizie di cui è capace.
Sì, perché il trionfo mediatico, dopo aver fottuto il marito (e fottuto un paio di suoi ex, e uno ci rimette la gola), fottuto i media, per Amy è quello di apparire una donna normale che è un modo per mettere il sigillo alla sua verità.
Quando in scena si manifesta dea Normalità, si possono anche rompere le righe, e se pure Nick esclamasse: «Questa donna si è inventata tutto, è un’assassina», sarebbe semplicemente preso pazzo: dire una cosa del genere, quando la moglie è incinta.
Il modello femminile incarnato da Amy - e qui torna la satira di cui parla Fincher - è quello dell’ennesima diabolica che però, inzuppata nelle chiacchiere scipite della contemporaneità, usa a suo vantaggio il pattern del femminicida, dell’uomo ben piantato e dalle spalle larghe che non appena cade nella frustrazione di un’esistenza fallita non può che picchiare a morte la moglie perché è così che riacquista la sua virilità di gorilla umano.
Soltanto buttare un granello di sabbia in questo meccanismo retorico potrebbe far indignare legioni; e questo Fincher lo fa, anche se con mano qua e là incerta, sospeso tra thriller e farsa, tra Hitchcock e Mel Brooks. Forse ha ragione lui: perché se il dibattito sul femminicidio è una scempiaggine non meno scempio è capovolgere simmetricamente la questione. Osare satireggiare, e ridere dunque, di queste cose, è cosa che sarebbe piaciuta a Shakespeare e dunque chi siamo noi per non applaudire?
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