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Libby Purves per http://www.dailymail.co.uk
Il documentario su Amy Winehouse diretto da Asif Kapadia è triste, appassionante, assolutamente coinvolgente. Perfino troppo equilibrato se si considera l’immenso talento di Amy e il suo catastrofico declino dovuto all’alcol, alla droga e alle persone che ha incontrato lungo il suo cammino.
Come per Lady D, la morte della Winehouse nel 2011 ha lasciato il segno su molte persone e alimentato molte leggende che il documentario si rifiuta di cavalcare. Kapadia si limita a raccontare la cantante tramite le interviste, i concerti, video girati con il cellulare, gli appunti che ha lasciato su fogli di carta. Tutti specchi di un’esistenza impetuosa e oscura.
Il regista non ha concesso molto spazio all’industria della moda e dello spettacolo, ha anche evitato di ridurre Amy Winehouse allo stereotipo della rock star che fa a pezzi con le sue mani un futuro in cui avrebbe potuto avere tutto. L’epilogo era evitabile, certo, ma non c’è un unico colpevole se a 27 anni il corpo di Amy ha ceduto, avvelenato dall’alcol. Il film racconta semplicemente quella storia attraverso la sua voce e quella delle persone che le stavano vicino.
Si sente la voce del suo primo manager Nick Shymansky, che ha sempre cercato di convincerla a rallentare; c’è la madre, Janis, che spiega come sia sempre stata una ragazza problematica. C’è l’affetto di alcune vecchie amiche, come Juliet e Lauren, che hanno fatto di tutto per aiutarla. C’è anche Tony Bennet, che dopo aver cantato con lei disse che sarebbe diventata una delle stelle più brillanti, se non fosse che la vita ti insegna a vivere solo se duri abbastanza.
Nel documentario, però, ci sono anche le persone con cui Amy ha combattuto, come il padre Mitch, che ha abbandonato la famiglia quando lei aveva solo nove anni, salvo ritornare dopo il suo successo. C’è anche Blake Fielder-Civil, con il suo stupido cappello da hipster, che non ha mai provato a salvarla dalla droga. All’inizio lo si può anche amare, vedendo i teneri filmati del loro primo periodo, poi però è difficile non odiare la sua slealtà.
Ancora giovane e sana, Amy disse che non le interessava la fama: “L’unica cosa che sono capace di fare è comporre e cantare, quindi lasciatemi fare musica”, diceva. Poi la bulimia, l’erba, suo padre, la sfortuna di amare un drogato, il potere donatole dalla sua fama di ignorare tutti i pericoli, l’hanno sconfitta.
Quando si esce dalla sala ciò che rimane non è l’odio per quelli che l’hanno sfruttata, ma la pietà e l’affetto per chi ha l’ha aiutata. Il racconto è redatto in maniera molto chiara, tutte le parole rovinate sono state sottotitolate: un documentario intimo frutto di un’era in cui le vite delle persone sono raccontate da frammenti di video e sms cancellati.
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