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Giulio Baffi per repubblica.it - Estratti
Si avvicina il Natale e Peppe Barra trionfa nei teatri gremiti di pubblico conquistato dal gioco del suo Razzullo, protagonista di quell’antica “Cantata dei pastori” che dal Seicento ad oggi si rinnova per la gioia di chi vi assiste e di chi, come l’attore e cantante napoletano, la mette in scena. Appuntamento d’emozione, spettacolo amato come un rito personale, occasione che ritorna, di anno in anno, per riaprire l’armadio in cui sono riposti ricordi e progetti.
Da quanti anni porta in scena il suo Razzullo?
Sono ormai cinquant’anni, la prima volta avevo trent’anni, la mise in scena il maestro Roberto De Simone affidandomi questo bellissimo personaggio, uno scrivano buffo e spaesato che mi sono cucito addosso come un abito che non ho mai smesso di indossare. Personaggi popolari che mi nutrono e che, da più di quattrocento anni, ancora ci divertono e ci fanno pensare.
(...)
Come era il suo Natale da bambino?
Povero e freddo, ma riscaldato bene dall’affetto della famiglia. Vivevamo a Procida con i nonni, a raccontarlo sembra una fiaba, il freddo e noi a scaldarci intorno al braciere, la tombola giocata coi parenti e i vicini, l’odore delle pigne messe sul fuoco ad arrostire, pochi giochi per noi bambini, delle biglie di creta per le sfide tra ragazzi, qualche pietanza più ricca da mettere in tavola, i dolci di Natale, la messa nella chiesa di San Michele sulla Terra Murata.
E la vita del giovanissimo Peppe?
I primi anni li ho trascorsi in quell’isola incantata, con mamma e nonna, con le zie e i piccoli amici. Poi ci trasferimmo a Napoli, ero povero, spaesato, guardai per la prima volta la città dando la mano a mia madre Concetta. Avevo paura di perdermi tra i vicoli di Vasto a Chiaia, il quartiere dove abitammo.
Per lei la capitale del sud è diventata una città specchio
Napoli è la città che mi ha formato e che mi nutre e sono orgoglioso di rappresentarla in tante occasioni. Mi ci sono guardato e a volte mi sembra di non essermici abituato mai fino in fondo, non amo tutto quello che significa il colore e il folklore rumoroso, tutto il resto mi appartiene.
LA CANTATA DEI PASTORI - PEPPE BARRA E LALLA ESPOSITO
A Napoli scoprì il piacere di recitare
Cominciai col teatro alla scuola di Zietta Liù, una insegnante intelligente che formava piccoli attori. Ma papà non voleva, mi ci accompagnava mamma Concetta, di nascosto. Non avevamo i soldi per pagare una retta. Io però ero una specie di “uditore”, ero bravo e sostituivo tutti i bambini malati. Per me era un modo per stare in compagnia, mi divertivo e facevo amicizia.
Recitare e cantare è stato un gioco?
L’unico vero gioco. Una festa. Ma il maestro di canto diceva che ero stonato, e io ci ho creduto per decenni. Poi fu Roberto De Simone che mi chiese: perché stai zitto se gli altri cantano? Gli dissi: perché sono stonato. Sorrise, mi fece provare. E io scoprii che ero bravo.
LA CANTATA DEI PASTORI - PEPPE BARRA E LALLA ESPOSITO
Deve molto al maestro De Simone
Moltissimo, per quella prima “scoperta” e per tutto quello che mi ha insegnato e che ho fatto sotto la sua guida. Se non l’avessi incontrato la mia vita sarebbe stata molto diversa, certamente molto meno felice. Con lui ho imparato, costruito, lavorando sodo.
Il vostro primo trionfo fu con la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Eravamo un bel gruppo, Carlo D’Angiò geniale e sempre serio, Eugenio Bennato che suonava e inventava canzoni, Patrizio Trampetti timido, gentile, alto e magro, aveva una voce speciale mentre quella di Giovanni Mauriello era forte e sicura, poi c’era Nunzio Areni con il suo flauto ed una giovanissima cantante, una bambina con la voce potente, Patrizia Schettino si chiamava. Veniva accompagnata dal padre che restava in silenzio assistendo alle nostre prove. Poi un giorno ci salutò, doveva studiare, al suo posto venne Fausta Vetere, che divenne subito una di noi.
LA CANTATA DEI PASTORI - PEPPE BARRA E LALLA ESPOSITO
E diventaste tutti famosi.
Qualcuno lavorava, io dovevo portare un po’ di soldi a casa, per altri c’era l’Università. Ma avemmo successo davvero. Ancora una volta fu Roberto a tracciarmi la strada con la sua straordinaria Gatta Cenerentola.
Lei vestì i panni di una mitica Matrigna al Festival di Spoleto
Un momento davvero esaltante, Roberto costruiva i personaggi modellandoli per noi attori, erano come abiti che ci stavano a pennello. In attesa delle parti che ci avrebbe assegnato, partecipavamo con stupore al suo lavoro che era come una febbre. Costruiva sintonie meravigliose. Una fatica terribile, un gran divertimento e tante invenzioni. Ogni giorno era una sorta di magia. Fu un successo travolgente.
Poi sono venuti altri spettacoli e successi, lei è rimasto un personaggio unico del teatro italiano
Gli amici dicono che sono pigro, ma per me il lavoro viene prima di ogni cosa. Prima di tutto il palcoscenico, dove invento e so di vivere. Ho avuto incontri importanti per me, amici come Lamberto Lambertini che hanno pensato a spettacoli che hanno avuto successo. Forse sono stato fortunato.
(...)
Come fa a divertirsi ogni volta che va in scena?
Dimenticando e ricordando allo stesso tempo, scoprendo nelle pieghe nascoste del recitare quello che mi consente di giocare con il pubblico. Però bisogna saper dosare quel che si inventa e misurarlo.
(...)
Vive meglio in teatro o nella sua affascinante casa napoletana piena di statuine, santi, pastori e ritratti di scena della grande Concetta, la sua splendida madre artista?
Mia madre la porto con me, sempre. E’ stata tanto, tutto, nella vita e in palcoscenico. Ed è lì in teatro che forse vivo meglio. Lì invento e resto serio, sembra una contraddizione ma è il mio modo di essere nel teatro. Una ragione di vita.
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