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Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”
«Al cinema non vedo mai gente che lavora. I personaggi hanno problemi sentimentali o psicologici, che sono importanti. Però quella cosa che chiamiamo vita quotidiana, l' intreccio tra ciò che facciamo fuori e dentro casa, non c' è», dice Daniele Vicari. Il suo Sole cuore amore è bene accolto alla Festa del Cinema.
Storia di una famiglia alla periferia di Roma. La moglie (Isabella Ragonese) fa la barista per quattro soldi, il marito (Francesco Montanari) è disoccupato, cucina e sta dietro ai loro quattro figli. Lottano per sopravvivere e non smettono di amarsi. La caduta degli stereotipi. «Il maschio tappato in casa, la donna forte che muore proprio perché è forte, mentre al cinema se sei forte ce la fai», dice Vicari.
ALAIN DELON E BELMONDO CON IL BORSALINO
«Il potere e il cinema non si interessano della quotidianità, di ciascuno di noi, della vita, che è fatta di lavoro, amore, solitudine. I registi hanno smesso di guardarsi intorno, anche chi racconta il sottoproletariato, i cosiddetti ultimi con la pistola in mano e la cocaina nelle mutande, è responsabile del 90 percento della nostra esistenza che passa sotto silenzio».
Vicari ha detto ai suoi attori di chiamare persone i personaggi. Sembra che lo spettatore sia con Isabella Ragonese al bar a ordinare cappuccino e cornetto. Daniele è cresciuto in un bar, «lo gestiva mia madre nella provincia di Rieti, da cui vengo». Ha una cugina, «si chiama Vicari come me e fa 200 km al giorno per 1100 euro al mese, cucina per una società che serve piatti a duemila extracomunitari». Poteva entrare in questa storia. Il titolo sono versi-tormentone di una di quelle «canzonette» che rappresentano epoche storiche, la semplicità delle parole fotografano una malinconia collettiva. Ci ha messo quattro anni per realizzarlo. Il produttore Domenico Procacci: «Si fanno solo film mediamente simili con cast mediamente bravi. Sono stanco di questa medietà».
È anche la giornata dell' incontro con Bernardo Bertolucci, per una strana coincidenza lui e Vicari citano lo stesso regista giapponese Ozu, e il bar.
«Quelle sue storie profonde di padri che si ubriacano nei baretti giapponesi...», dice Bertolucci. Ha parlato del doppio rifiuto di Alain Delon e Jean Paul Belmondo per Ultimo tango a Parigi: «Delon voleva fare il produttore, l' altro lo giudicò osceno e mi cacciò»; del padre Attilio, grande poeta: « Novecento fu un omaggio a lui, volevo tornare nella sua terra, la campagna di Parma»; parla di Olmo, il personaggio di Depardieu in quel film: «Un nome che non esiste, siccome c' era una morìa di olmi e i registi sono megalomani, pensai di salvare quegli alberi.
ULTIMO TANGO A PARIGI MARLON BRANDO MARIA SCHNEIDER
Tanti bambini in seguito furono chiamati Olmo»; del suo «mito» Godard: «Era una specie di guardia rossa di Mao mentre io ero un tetragono comunista»; parla del suo voyeurismo: «Nella vita non lo sono, al cinema divento senza freni»; dei «furti»: «I registi sono ladri di cinema, chi non ha scopiazzato? L' importante è non farsi scoprire».
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