
TE LO DO IO IL CENTRO - L'IDEONA DI ELLY SCHLEIN PER NEUTRALIZZARE CHI SOGNA LA NASCITA DI UN…
“LA DEMOCRAZIA CRISTIANA È COSÌ LARGA DI RESTRIZIONI” - QUANDO VITALIANO BRANCATI, COLPITO DALLA CENSURA AI TEMPI DE “LA GOVERNANTE”, SI RIBELLÒ ALLA "DITTATURA CLERICALE" IMPOSTA DALLA DC, UN “PARTITO EROTOMANE” INTENZIONATO A ESTENDERE A TUTTA L’ITALIA “LA SUA CAPACITÀ DI TURBARSI AL SOLO SENTIR NOMINARE CERTE COSE” (MA BRANCATI OMETTEVA DI RICORDARE CHE IN PIENO REGIME FASCISTA AVEVA SCRITTO DUE LETTERE A MUSSOLINI PER RIBADIRE LA SUA DISPONIBILITÀ A LAVORARE AL MINISTERO DELLA PROPAGANDA, SEZIONE TEATRO) - IL PROGETTO EGEMONICO DI ANDREOTTI SU CINEMA E TEATRO E L’ATTACCO AL CINEMA DI DE SICA PER "UMBERTO D…" - VIDEO
Giorgio Caravale per “il Foglio” - Estratti
È una storia di teatro, libri e censura quella che si svolge a Roma nei primi anni Cinquanta
anna proclemer vitaliano brancati
(...) Ci sono alcuni tra i più noti scrittori e drammaturghi italiani del Novecento, i principali editori del secondo dopoguerra e lui, il futuro sette volte presidente del Consiglio, il giovane Giulio Andreotti, allora sottosegretario del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.
(...) i funzionari del Minculpop cacciati a pedate dopo il 25 luglio 1943 appena tre anni dopo si ritrovarono a sedere negli stessi uffici occupati durante il Ventennio. Nicola De Pirro, storico ispettore del teatro negli anni del fascismo, cambiò scrivania solo per vestire i panni del direttore generale dello Spettacolo e di presidente della Commissione di censura.
C’era Andreotti al posto di Pavolini e Mussolini, e non era differenza da poco, ma la legislazione in base alla quale tutte le opere teatrali o cinematografiche dovevano passare il vaglio della censura preventiva governativa era rimasta la stessa, o quasi. Lo sapevano bene gli sceneggiatori e i drammaturghi che si ritrovavano periodicamente nei corridoi di palazzo Balestra in attesa di essere ricevuti dal funzionario di turno. Vitaliano Brancati non era certo nuovo a quelle stanze.
Nel 1948 il Raffaele, un’amara parodia del fascismo e insieme una riflessione sull’ipocrisia del potere, era stato liquidato come “una cattiva azione contro l’Italia”. Due anni dopo Una donna di casa, un sottile attacco alla “tirannide clericale” appena mascherato dietro la vicenda di una brillante scrittrice di testi teatrali costretta a nascondere la propria identità, fu bollata come un insolente attacco alla censura teatrale e al potere democristiano.
Brancati insomma sapeva bene, e per esperienza diretta, che “la Democrazia cristiana è così larga di restrizioni”, lo scrisse alla moglie, l’attrice di teatro Anna Proclemer, poco prima di terminare la sua nuova commedia intitolata La governante.
Raccontava di una giovane calvinista francese di nome Caterina Leher, assunta come governante in una famiglia borghese siciliana trapiantata a Roma, e del drammatico esito del conflitto interiore da lei vissuto in vergognoso silenzio tra desiderio omosessuale e moralità pubblica. Jana, la giovane cameriera da lei denunciata nel disperato tentativo di nascondere il presunto peccato, moriva in un incidente dopo essere stata licenziata, mentre Caterina decideva di suicidarsi tormentata dai sensi di colpa. Non esattamente una commedia pedagogicamente edificante, come Andreotti e i suoi collaboratori reputavano dovesse essere l’arte di qualsiasi rango.
E difatti la presenza di “elementi contrari alla morale e al buon costume” la rese inadatta alla rappresentazione agli occhi della commissione di censura e di Giulio Andreotti. L’opera, si disse nel gennaio 1952, invece di edificare il pubblico condannando il caso rappresentato, “non lascia che una sottile compassione, unita peraltro a una certa ammirazione per tutte le lesbiche in potenza o in atto che ci rappresenta”.
Brancati non la prese bene. Ogni volta che si avvicinava a quelle “porte di legno dorato” dalle quali i “preti” entravano e uscivano come da una sagrestia, era come se fosse la prima. Ogni volta lo stesso carico di speranza e ingenuità. Ogni volta una delusione e una rabbia sempre più incontenibili. Stavolta Brancati non intendeva rimanere inerme.
Occorreva alzare la voce, chiamare alle armi editori, amici e colleghi. Il primo della lista era naturalmente il suo editore di sempre, Valentino Bompiani. Brancati ne conosceva il temperamento moderato e la politica editoriale accorta, sapeva di non trovare di fronte a sé un combattente, probabilmente avevano già parlato più di una volta del problema censura. “Se potrai conciliare la tua amicizia per me col tuo modo di vedere le cose di oggi in Italia, che non so se sia severo quanto il mio”, gli scrisse, “ti vorrei pregare di far comporre presto la commedia”. Non era però solo La governante che Brancati chiedeva a Bompiani di pubblicare. Aveva intenzione di scrivere in tempi molto stretti, “dieci giorni al massimo”, un pamphlet “violento”, la definizione è sua, di denuncia della censura democristiana.
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(...)
Ma Brancati aveva fretta, comprendeva le riserve di Bompiani ma non voleva perdere tempo. Chiese indietro il dattiloscritto e una liberatoria dai vincoli del “contratto d’opzione”. Tramite il critico letterario Carlo Muscetta si rivolse all’editore Einaudi. A Torino gli einaudiani, riuniti in una delle loro riunioni del mercoledì, lessero il saggio sulla censura con “interesse e simpatia”.
(...) Chiedevano però una versione “più breve, più scattante, con meno digressioni storico-ideologiche e meno attacchi e fatti personali”, un tono più “scanzonato e acéré”, capace di produrre un risultato “polemicamente più efficace”: evitando la spiacevole sensazione che le critiche fossero dettate dal “risentimento personale”.
Anche in questo caso Brancati reagì in modo stizzito e impaziente. Richiese indietro il manoscritto, prese carta e penna e scrisse a Franco Laterza (...)
A Franco Laterza il progetto piaceva. Era l’occasione per investire sull’attualità, politica e culturale, un terreno insolito per Laterza che aveva però da poco inaugurato la collana Libri del tempo con i saggi di Arturo Carlo Jemolo ed Ernesto Rossi. La trappola retorica, poi, era troppo ben congegnata perché lui opponesse alcuna resistenza: “Lei è il solo editore liberale, indipendente dal governo democristiano e dal sottogoverno comunista”, gli scrisse Brancati. Il ruolo di paladino della libertà d’espressione, ritagliato su misura per lui dallo scaltro Brancati, gli si addiceva, ci si trovò a suo agio. Aveva anche lui, come Bompiani ed Einaudi, alcune riserve, suggerimenti per migliorare il testo, per evitare il rischio di un pamphlet scritto “per ragioni personalistiche”, come qualcuno con “faciloneria furba e opportunistica” avrebbe potuto insinuare.
Ma di fronte al “ritiro degli editori, compreso quello ultra-progressista”, e soprattutto di fronte alla fretta incontenibile dello scrittore siciliano, cedette quasi subito. Le lettere già pubblicate nel 2007 da Enzo Zappulla e ora riprodotte con piccole aggiunte e con indicazione delle relative collocazioni archivistiche da Giorgio Nisini (Vitaliano Brancati – Franco e Vito Laterza, Carteggio 1952-1954, Edizioni di Storia e Letteratura, 2024) consentono di seguire passo passo la realizzazione del progetto editoriale concretizzatosi poche settimane dopo, in tempi record, con la stampa di Ritorno alla censura, un volume unico che, come voluto dall’autore, faceva precedere il testo della commedia censurata da una sessantina di pagine in cui mescolava affondi polemici sulla censura democristiana e sfoghi personali.
Ritorno alla censura denunciava la “dittatura clericale” imposta dalla Dc, un “partito erotomane” intenzionato a estendere a tutta l’Italia “la sua capacità di turbarsi al solo sentir nominare certe cose”. E pensare, scriveva Brancati, che nel chiuso del confessionale migliaia di sacerdoti parlano con “migliaia di donne” di argomenti che il teatro “non può nemmeno sfiorare per i suoi pochi spettatori”.
Se la prendeva con Luigi Gedda, neopresidente dell’Azione cattolica italiana (“il suo ideale è la dittatura”), a suo dire la vera mente della reazione democristiana. Puntava il dito contro i censori al servizio della Dc, animati da un “sentimento burocratico della storia”, quello per cui l’Italia è sempre l’“Italia ufficiale” e loro sempre schierati dalla parte dei “potenti di tutti i tempi”, anche di “quelli che ormai non lo sono più”.
Certo, la censura teatrale era nata sotto il fascismo ma la censura democristiana era peggiore. Brancati parlava a ragion veduta. Gli scontri con i censori del Duce si erano risolti tutti a suo favore. Qui invece tre rifiuti consecutivi. Lo diceva anche Moravia, “i fascisti, forse per ignoranza, avevano la manica più larga degli attuali ispiratori della censura teatrale e cinematografica”. Il falso senso di libertà su cui si reggeva il potere democristiano era paradossalmente più castrante di un regime espressamente e orgogliosamente autoritario.
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Brancati ometteva di ricordarlo ma qualche anno prima, in pieno regime fascista (aprile 1936), aveva scritto almeno due lettere a Benito Mussolini per ribadire la sua disponibilità a lavorare al ministero della Propaganda, sezione teatro: per leggere i “lavori drammatici da trasmettere alla radio” e aiutare “chi legge i lavori da recitarsi in teatro”.
Non avendo ricevuto alcuna risposta dal ministero, si era dichiarato disponibile anche a fare il direttore del “Popolo di Sicilia”, pronto a far “voltolare anch’io il mio sassolino”, a “smuovere le montagne” assieme al Duce. E chissà, forse anche a causa del riaffiorare di quei ricordi, lontani ma non troppo, spiacevoli ma non troppo, Brancati si mostrava ora indulgente, a tratti persino empatico, nei confronti dei censori fascisti.
Li descriveva come “piccoli ambiziosi” che un tempo sognavano “inutilmente di diventare scrittori” finendo invece per accontentarsi di fare i funzionari al Minculpop pur di “rimanere a contatto con la letteratura”. Già perché in quel ministero, dove appena qualche anno prima avrebbe voluto lavorare anche Brancati, c’erano funzionari scettici disposti a concedere una certa libertà alla cultura e fanatici altolocati incapaci cogliere qualsiasi allusione sovversiva, ma anche “brave persone”, perché in Italia “le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di generare confusione tra il bene e il male”.
Il dibattito nel frattempo, fuori dalle stanze di palazzo Balestra, infuocava. C’era Alberto Moravia che aveva visto in passato la sua Mascherata, satira di una immaginaria dittatura sudamericana, impigliarsi nelle maglie della censura fascista, e assisteva ora attonito alla messa al bando della sua intera produzione da parte del Sant’Uffizio, ciò che rimaneva dell’antica Inquisizione romana.
Appena ricevuta notizia del divieto di rappresentazione della Governante inneggiò a La censura mal di regime (Rinnovamento d’Italia, 11 marzo 1952) dando man forte a Brancati. Gli promise di recensire il suo pamphlet non appena Laterza lo avesse pronto. Ma qualcosa andò storto. Dopo aver ricevuto in anteprima una copia di Ritorno alla censura con annessa Governante telefonò a Brancati comunicandogli di non poter scrivere la recensione promessa: “Sarei cornuto e bastonato”, gli disse. Se l’era presa per il personaggio dello scrittore che frequentava casa Platania, Alessandro Bonivaglia, modellato da Brancati proprio su di lui.
Seduttore incallito, vanitoso come pochi, autore di racconti morbosi: l’appena velata parodia di Brancati fece andare su tutte le furie Moravia. Lo scrittore siciliano raccontò di quella telefonata alla moglie, provando ad attribuire la responsabilità dell’incomprensione alla durezza con cui Moravia giudicava se stesso. Invocando per l’ennesima volta il fantasma della censura: “Doppia censura. Quest’altra non me l’aspettavo”.
elsa morante alberto moravia 1
La governante non era certo la prima né l’ultima commedia a rimanere bloccata negli ingranaggi della censura democristiana. In quello stesso 1951 persino la Mandragola di Niccolò Machiavelli era stata respinta dalla commissione di censura. Censurare un testo teatrale di cinquecento anni prima era imbarazzante per il governo, se n’era reso conto pure Andreotti, due anni prima: “Non mi pare davvero che si possa pensare di vietare”. Al massimo, scrisse, si può “raccomandare – oralmente – di mantenere il […] tono”. Si trattava in effetti di un “classico […] che può fare testo come costume del tempo”, ridicolo vietarne la rappresentazione.
Eppure, nell’annus horribilis della censura democristiana lo stesso Andreotti negò ben due volte il permesso di rappresentazione. C’era quel Timoteo, “frate mal vissuto”, un uomo di Chiesa colto: non certo il frate “rozzo, ghiottone del Boccaccio e dei novellieri”, e tuttavia veniale, “lussurioso”, e appunto per questo facile a essere attualizzato: “Certi caratteri sono eterni, non ne variano che le manifestazioni esteriori secondo le epoche”, fu detto.
Non era un bel clima. Era un Dopoguerra bigotto, come aveva scritto Moravia già nel 1947. Mentre l’autore de Gli indifferenti veniva additato dalla Civiltà cattolica come “il più spudorato dei pornografi”, Indro Montanelli invocava il carcere, “sia pure per restarvi solo pochi giorni”, per il regista Renzo Renzi, colpevole di aver pubblicato sulla rivista Cinema nuovo diretta da Guido Aristarco, una proposta di film sulle malefatte dei soldati italiani in Grecia, esprimendosi, con una metafora non proprio felice, in difesa di una “una libertà col colletto duro, non in maniche di camicia”.
Era un’Italia che si preparava a essere governata da Scelba e Tambroni, già ministri degli Interni, un paese in cui l’aborto era illegale, il matrimonio indissolubile, la magistratura riservata agli uomini, le case chiuse ancora aperte per dare sfogo agli istinti sessuali di uomini esteriormente ligi alla morale cattolica. Del resto anche gli intellettuali comunisti finivano spesso per aderire, seppur con sfumature diverse, a quella morale bigotta. Mario Alicata, deputato Pci e consigliere comunale di Napoli, si unì al coro di condanna della Pelle di Curzio Malaparte.
Il consiglio comunale della città partenopea lo stigmatizzò come un “libro pieno di oscene falsità su Napoli e sui napoletani”, proprio mentre il Sant’Uffizio lo metteva all’indice, infastidito tra le altre cose dalla menzione del cardinal Ascalesi, arcivescovo di Napoli, tirato in ballo da Malaparte nelle pagine del suo romanzo come testimone inerme della prostituzione maschile minorile, un vergognoso mercato di bambini, venduti dalle madri per pochi soldi nei vicoli della città.
Nei primissimi mesi del 1952, gli stessi in cui Brancati incassava il divieto per la sua Governante, Giulio Andreotti sfidava il cinema neorealista italiano con la sua lettera aperta a Vittorio De Sica. Il regista di Umberto D. era colpevole ai suoi occhi di aver “voluto dipingere una piaga sociale […] ma senza quel minimo di insegnamento che giovi nella realtà a rendere domani meno freddo l’ambiente di quanti in silenzio si consumano, soffrono e muoiono”.
A poco valeva la “valente maestria” che, bontà sua, riconosceva a De Sica. Il cinema, lo aveva già scritto Pio XI nella sua enciclica Vigilanti cura (29 giugno 1936), doveva essere per gli artisti un “prezioso strumento di educazione e di elevazione dell’umanità”. Soffermarsi come De Sica solamente sulle “male arti delle donne traviate”, sui “furtarelli della cronaca nera”, o “l’isolamento sterile dell’una e dell’altra sottoclasse” non era edificante, contribuiva a offrire un’immagine negativa dell’Italia all’estero, peggio: spingeva i ceti più disagiati nelle braccia dei comunisti.
De Sica era riuscito abilmente a limitare i danni, il divieto della commissione di censura si limitò ai soli minori di sedici anni. Aveva tagliato due scene su cui i censori non transigevano, per il resto aveva agito con furbizia presentando un copione leggermente edulcorato rispetto a quello portato sulle scene del film. Era saltata una parte della scena dell’ospedale nella quale, durante la recitazione del rosario, uno dei malati, vicino di letto del protagonista, recitava la preghiera “senza la dovuta riverenza”, e la battuta messa in bocca alla “servetta Maria”, “è di tutti e due”, dove questa alludeva all’incerta paternità del figlio che teneva in grembo. I tagli non avevano però placato la crociata di Andreotti contro l’“indifferente agnosticismo”, quel “diffuso senso di scetticismo” celato dietro “l’insegna di formule cosiddette neoveriste”.
Quel giorno di febbraio Andreotti rivelava per la prima volta in modo così esplicito i termini della sua personale sfida per l’egemonia culturale democristiana. Voleva “conquistare al cristianesimo le attività dello spettacolo in Italia”, lo aveva confidato tre anni prima a Giovanni Battista Montini, pro-segretario di stato e futuro papa Paolo VI. Si sarebbe fermato solo “il giorno in cui i cattolici” avrebbero avuto “un peso effettivo, nell’arte e nell’industria dello spettacolo”. Fece arrivare finanziamenti al Centro cattolico cinematografico, potente braccio cinematografico dell’Azione cattolica dell’amico Gedda; fece in modo che nella giuria del Festival internazionale del Cinema di Venezia sedesse stabilmente almeno un religioso, occhio vigile capace di influenzare all’occorrenza le decisioni dell’intera giuria; rilasciò molte autorizzazioni per l’istituzione di nuove sale cinematografiche parrocchiali.
Fece in tempo a catechizzare Roberto Rossellini, protagonista con il suo Europa ’51 del primo esperimento di neorealismo cattolico, e a sforbiciare qualche altro film prima che la carriera politica lo distogliesse da quella personale battaglia culturale.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta la morsa bigotta iniziò gradualmente ad allentarsi. Andreotti era diventato ministro dell’Interno, non più dunque sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo Spettacolo.
Nel 1962 fu abolita la censura preventiva delle opere teatrali. Le associazioni civili e i singoli cittadini continuavano a rivolgersi ai giudici lamentando l’immoralità di romanzi o rappresentazioni teatrali. Ma i giudici, una parte di loro almeno, iniziavano a fissare paletti tra arte e morale sessuale. I “particolari descrittivi di singole situazioni erotiche”, ricordavano per esempio nelle sentenze di assoluzione, non erano un “semplice pretesto” per destare scandalo tra i lettori, come qualcuno voleva, bensì parte integrante della “tesi narrativa” di un racconto, contributo decisivo alla definizione della complessità caratteriale dei singoli personaggi. Il clima nel paese stava cambiando.
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