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Marino Niola per “la Repubblica”
Natale ai fornelli. Quest’anno gli italiani santificano le feste cucinando per amici e parenti. Segnando uno storico ritorno del fai da te casalingo che non si registrava dal dopoguerra.
Lo rivela una ricerca Coldiretti/Ixè sui consumi festivi del Belpaese. I dati proclamano a chiare lettere il trionfo dell’enogastronomia che assorbe buona parte delle tredicesime, superando di gran lunga anche il budget destinato ai regali. Si calcola che ciascuno di noi trascorrerà in media tre ore e mezzo tra pentole e padelle per portare a tavola manicaretti di ogni sorta. Senza contare tutto il tempo speso nei giorni precedenti andando per mercatini, pizzicagnoli e produttori, in cerca del fior fiore del made in Italy da mangiare.
È solo perché in tempi di crisi non c’è rimasta che la consolazione dell’abbuffata in famiglia? Oppure è colpa, o merito secondo i punti di vista, della gastro-mania contemporanea? Quella febbre collettiva, insomma, che ci sta trasformando in un popolo di poeti santi e chef. Sono vere un po’ tutte ma solo in parte. Perché in queste nostre scelte, apparentemente dettate dalle ragioni del momento, risuona un’eco remota e potente.
Cenoni pantagruelici e pranzi luculliani sono quel che resta delle orge alimentari del mondo antico. Delle vere e proprie liturgie della gola. Lo dice la parola stessa orgia. Che deriva dal greco ergo, che significa fare le cose in un modo prescritto. E si riferiva ai rituali in onore delle divinità legate al cibo. Come Cerere, la dea dei cereali e Dioniso, il signore del vino. Durante i banchetti orgiastici i partecipanti erano tenuti a mangiare e bere in eccesso tutta una serie di piatti simbolicamente offerti agli dèi, ma golosamente consumati dagli uomini.
La scelta delle pietanze, le modalità di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, formaggi, pani, vino, dolci, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po’, anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto collettivo. Perché quella abbuffata corale rafforzava il legame comunitario, era una dichiarazione di appartenenza alla polis attraverso l’intensificazione straordinaria del consumo di cibi identitari. Oggi diremmo locali. O a chilometro zero.
Quest’uso, apparentemente lontano, getta una luce diversa sulle nostre imminenti orge alimentari, sui sacrifici di cibo che celebriamo insieme durante le feste. E che non si spiegano solo con la crisi e con la mancanza di alternative. Ma piuttosto con quella convivialità rituale che è rimasta nel nostro Dna culturale, nella nostra memoria remota. Gli attuali usi e consumi sono la versione contemporanea, e spesso dimenticata, dei riti che erano alla base della democrazia in Grecia e a Roma.
E che continuano ad agire nelle profondità del nostro inconscio collettivo come dei calchi, degli stampi comportamentali nei quali la modernità fa colare contenuti e significati nuovi. E proprio come nelle antiche orge, anche nei nostri rituali natalizi, la commensalità è di precetto.
Non a caso i due cardini della tradizione festiva sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione dei menu diventa mitologia domestica e lessico famigliare, aneddotica e ricordo, trasformando la strippata in eccesso rituale. A parole temuto da molti, di fatto evitato da pochi. Proprio perché si tratta di una liturgia.
Dalla quale fra l’altro nessuno doveva e deve essere escluso. In questo senso i cenoni che vengono organizzati per i più poveri e le altre iniziative umanitarie — in un tempo in cui il legame sociale si indebolisce e la democrazia stessa entra in sofferenza — appartengono a una filiera millenaria che fa la società attraverso il cibo. Reti sociali d’antan che oggi si ritrovano in iniziative etiche come i cenoni della Caritas.
Come il Last Minute Market di Andrea Segrè che cerca di combattere lo spreco trasformando prodotti invenduti o non commercializzabili in risorsa da redistribuire. O come la cucina solidale di Massimo Bottura e di altri cuochi celebri che, di concerto con il cardinale di Milano Angelo Scola, faranno del Refettorio ambrosiano una mensa per i meno garantiti.
Se gli antichi investivano tanto in banchetti e orge alimentari per rafforzare la coesione collettiva, allora questo nuovo investimento sulla convivialità fa ben sperare per le sorti del nostro legame sociale. Perché, dopo anni di edonismo individualista, segnala una inversione di tendenza. A riprova del fatto che le grandi trasformazioni trovano spesso nelle scelte culinarie una leva potente e un segnale premonitore. Così quel che sembra un rifugio nel passato potrebbe rivelarsi un ritorno al futuro.
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