cecilia gino strada

“LAVORARE CON MIO PADRE A EMERGENCY E’ STATO COMPLICATO. NON C’È STATO NESSUN LITIGIO MA SOLO UNA FASE DI FREDDEZZA” – L’EUROPARLAMENTARE DEL PD, CECILIA STRADA, RACCONTA IL RAPPORTO COL PADRE GINO, FONDATORE DI “EMERGENCY”: “NON ERA UN PADRE MOLTO PRESENTE, MA MI SCRIVEVA TANTE LETTERE. UNA VOLTA CHE MIO FIGLIO LO SALUTÒ CON UN 'CIAO NONNINO'. E LUI: 'NONNINO UN CAZZO'. NON ERA UNA PAROLA CHE AMAVA” – "A CHI MI CRITICA PER LA MIA ELEZIONE COL PD DICENDOMI 'TUO PADRE SI RIVOLTEREBBE NELLA TOMBA', RISPONDO…"

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Giusi Fasano per corriere.it - Estratti

 

cecilia gino strada

 

Con Cecilia Strada si va sul sicuro. Inutile chiederle se c’è qualcosa di particolare, di speciale, di unico che ricorda di suo padre Gino. Perché ogni ricordo è particolare, speciale, unico...

«La mia prima volta in sala operatoria, per dire, avevo nove anni».

 

Ho capito bene? Nove?

«Nove. Era il 1988, io e mia madre non lo vedevamo da una vita e così a Natale lo abbiamo raggiunto a Quetta, in Pakistan. Eravamo appena arrivate quando chiamano dall’ospedale. C’erano feriti, avevano bisogno di lui. Io chiedo timidamente: posso venire anch’io? E sento due risposte in contemporanea. Mia madre: ovviamente no. Lui: ma certo che sì! Poi arriviamo in ospedale e oso chiedere: posso entrare con te? Mamma: assolutamente no. Lui: sì, sì, vieni. Così entrai. Se ci ripenso adesso che ho 46 anni... Mi chiedo: io avrei mai portato mio figlio in sala operatoria a 9 anni? La risposta è quella di mia madre: assolutamente no, ma sono molto felice di esserci andata».

 

Che intervento era?

cecilia gino strada

«Un bambino colpito da un proiettile alla testa. Si salvò. I feriti erano tutti civili, siamo usciti che era notte e mia madre, che aspettava fuori, aveva ancora addosso gli occhiali da sole perché non voleva mostrare gli occhi gonfi di pianto per quel che aveva visto. Adesso so che quel viaggio mi ha cambiato la vita».

 

 

Quell’anno ancora non esisteva Emergency.

«È nata nel 1994 e da allora nei suoi ospedali i suoi medici, i suoi infermieri, i suoi operatori, si sono occupati della cura gratuita e di qualità di milioni di persone in zone spesso alla fine del mondo e dell’umanità. Ricordo che un giorno mio padre tornò a casa e disse a me e mia madre: facciamo sta’ cosa, ma dobbiamo darci parecchio da fare. Io ero una ragazzina, il mio compito fu spedire lettere e fax. 

 

(...)

 

Torniamo a suo padre. Classe 1948, nato a Sesto San Giovanni, liceo classico, laurea in Medicina, specializzazione in chirurgia d’urgenza. Primo impiego da cardiochirurgo, poi chirurgia traumatologica. Pratica negli Usa, Stanford e Pittsburgh, Inghilterra, Sudafrica. Prima di tuffarsi anima e corpo in Emergency lavora con il Comitato internazionale della Croce Rossa: Pakistan, Etiopia, Somalia, Bosnia... Sempre lontano da casa...

gino cecilia strada

«Non era un padre molto presente, è vero. Ma mi scriveva tantissime lettere che ancora conservo. Mi raccontava le sue giornate, mi mandava fotografie di gente ferita, mutilata orribilmente. Anche lì: io non credo che le avrei mandate a mio figlio ma sono contenta che lui lo abbia fatto con me. Ogni immagine, ogni racconto di guerra mi ha fatto capire un po’ di più su come va il mondo e su quel che volevo per il mio futuro».

 

Suo figlio Leone oggi ha 15 anni. Che rapporto aveva con suo nonno?

«Beh, era un uomo divertente e certo era lontano dalla figura classica del nonno, ma non si poteva non amare e Leone l’ha amato come tutti noi. Sorrido ancora a ripensare quella volta che lo salutò con un “ciao nonnino”. E lui: “nonnino un cazzo”. Non era una parola che amava...».

 

Lei è stata presidente di Emergency dal 2009, dopo la morte di sua madre, fino al 2017. Com’era lavorare con suo padre?

«È stato a volte molto bello, altre molto complicato. Io sono grata alla vita per avermi dato i miei genitori, per quello che mi hanno insegnato e per quel che abbiamo fatto. Ma lavorare assieme ha avuto un costo: ci ha polverizzato la vita privata. C’erano solo e sempre questioni di lavoro. Problemi, soluzioni, discussioni, era tutto soltanto lavoro. Pensi che io e mio padre ci siamo ritrovati l’uno per l’altra e lontani dalla parola “lavoro” solo dopo la fine del mio rapporto con Emergency».

cecilia gino strada

 

Suo padre si arrabbiò molto con chi disse che lei lasciò perché avevate litigato.

«Non c’è stato nessun litigio, abbiamo avuto un periodo di freddezza — questo è vero — ma non ci siamo mai davvero allontanati.

 

Al contrario, dopo quel periodo su cui in tanti hanno ricamato chissà quale retroscena, come le dicevo abbiamo realizzato che finalmente eravamo tornati a essere un padre e una figlia normali. Non solo e sempre Emergency ma anche: “Hai letto qualche libro ultimamente?”, oppure: “Che serie stai guardando?”, o: “Ci facciamo le tagliatelle al ragù?”. A un certo punto ci siamo detti: da quanti anni non facevamo due chiacchiere così! È stato bellissimo».

 

(...)

Una cattiveria sul rapporto fra lei e suo padre che l’ha molto ferita.

«Ne sono state dette tante... Ancora oggi qualcuno che non gradisce la mia elezione all’Europarlamento con il Pd mi scrive per dirmi “tuo padre si rivolterebbe nella tomba”. Visto che tutti sono bravi a leggere il pensiero dei morti lo faccio anch’io: io dico che lui oggi andrebbe volentieri a cena con Elly Schlein».

 

La volta che lo ha visto più arrabbiato.

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«Ne ho sentite di sfuriate, eh... Una che ricordo è quando fu costretto a chiudere l’ospedale a Kabul perché non era più garantita la sicurezza. Era successa una cosa assurda. Su richiesta delle autorità italiane avevamo dato una mano per agevolare i contatti per la liberazione del giornalista di Repubblica Mastrogiacomo.

 

E però alla fine ci siamo ritrovati in una situazione impossibile, con i nostri accusati ingiustamente di terrorismo e nessuna difesa dall’Italia. Gli stessi che ci avevano chiesto il favore ci hanno poi abbandonato. Eravamo esposti a rischi enormi e abbiamo dovuto chiudere. Solo che chiudere significava far morire molta gente. Dall’Europa non si sentono né l’odore delle ferite infette né le urla dei civili feriti...».

 

 

(...)

Se Gino Strada tornasse indietro per un giorno...

«Non lo condividerei con nessuno. Lo terrei a casa con me a fare le tagliatelle al ragù che adorava. E gli farei un milione di domande per ricostruire scene vecchie di cui non ricordo i dettagli».

 

 

Ad agosto del 2021, quando lui morì, lei era in mare a salvare migranti.

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«È morto negli stessi minuti in cui stavamo facendo il primo soccorso. Se ci penso mi rivedo piegata in avanti a tirar su una persona. Quell’addio a distanza all’uomo che aveva salvato tante vite — e proprio mentre io stavo facendo la stessa cosa — era un copione perfetto scritto dal destino per me e per lui. Era tempo di Covid, in porto avevamo dieci giorni di quarantena.

 

Mi hanno detto: se vuoi chiediamo di fare un’eccezione per farti andare da lui, ma risposi che i diritti dovevano essere di tutti o di nessuno. Forse, ripensandoci l’ho fatto anche per me stessa: non essere al funerale, voleva dire continuare a fingere che ci fosse ancora. E in fondo sto facendo finta anche adesso: lui è in missione e io mi aspetto di rivederlo, un giorno o l’altro».

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