DOMANDE SPARSE SUL CASO ALMASRI – CON QUALE AUTORIZZAZIONE IL TORTURATORE LIBICO VIAGGIAVA…
Marco Giusti per Dagospia
Mentre in Italia continuiamo a parlare se era meglio mandare Moretti piuttosto che Crialese agli Oscar o quanto ci piace o non piace Sorrentino, arriva, in una settimana fin troppo carica di film, "Una separazione" dell'iraniano Asghar Farhadi, super premiato al Festival di Berlino del 2011 (miglior film, migliori interpretazioni maschili e femminili!) e con un Oscar, dicono quelli che ne capiscono, già in tasca come miglior film straniero dell'anno.
Il film di Farhadi, che tutti i giovani autori italiani dovrebbero vedere soprattutto per capire come si costruiscono le psicologie dei personaggi, è un piccolo miracolo. Una specie di Divorzio all'iraniana ambientato e girato nella Teheran di oggi, città repressa ma vivissima, dove attraverso la costruzione dei personaggi, soprattutto femminili, e i loro rapporti con le istituzioni, la religione, il codice etico, ma anche con la quotidianità , abbiamo un quadro preciso della realtà iraniana, del come si vive. Il tutto senza toccare la politica e sfuggendo miracolosamente alla censura.
Come nei grandi film della nostra commedia, anche se l'Italia democristiana degli anni '60 non era certo paragonabile all'Iran di oggi, l'analisi dolceamara delle crisi delle coppie borghesi, dei rapporti tra classi e tra cittadini e istituzioni, ci rivelano spesso la verità di un paese più che i film manifesti troppo aggressivi e aperti.
C'è Simin, una moglie, Leila Hatami, molto occidentalizzata, che vuole il divorzio non perché non ama il marito, anzi, ma perché vuole portare la sua famiglia all'estero. Il marito Nader, Peyman Moadi, tranquillo borghese, non vuole lasciare solo il vecchio padre malato di Alzheimer. La loro figlia undicenne Termeh, Sarina Farhadi, nella separazione, decide di vivere con padre per cercare di ricucire lo strappo della madre, sapendo che lei non partirà mai da sola.
Su questa situazione di base si inserisce il dramma di un'altra famiglia, più povera e molto più bigotta. Una moglie, Razieh, cioè Sareh Bayat, in attesa di un secondo figlio, che viene presa come badante del vecchio quando Simin molla Nader, ma che non lo ha voluto dire al marito Hodjat, Shahan Hosseini, violento, isterico e pieno di debiti.
Nel crescere della vicenda e nella confusione dei rapporti, Simin caccia malamente la donna incinta, che perde il bambino, e si scatena una guerra fra classi diverse e contemporaneamente fra mogli e mariti sotto gli occhi di un buffo giudice, Babak Karimi, già montatore e attore per molti film italiani (era anche uno dei re magi degli spot del panettone Balocco...).
Grande successo attualmente in patria, dove ha diviso il pubblico, il film offre uno sguardo sull'Iran totalmente inedito. Un paese per certi aspetti moderno ma anche antichissimo, dove però tutti i personaggi, esattamente come nella commedia all'italiana, sono costretti a confrontarsi con la moralità e con la realtà del momento storico, e con la propria coscienza.
L'incastro etico che, nello svolgersi della vicenda, avvilupperà tutti i protagonisti è qualcosa che generalmente sembra non riguardare mai il nostro cinema di oggi, â'Habemus Papam'' escluso, ma che era ben chiaro ai nostri vecchi maestri, come insegnava già â'Il sorpasso''. Quello che non possiamo capire è il lavoro poi che hanno fatto Farhadi e i suoi attori per aggirare la censura e poter presentare in tutto il mondo questa commedia altamente rivoluzionaria che colpisce al cuore una società bigotta e repressiva quando i suoi abitanti sono ormai incredibilmente più avanti. No, non è â'Terraferma''.
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