IL CINEMA DEI GIUSTI - BENTORNATO MÉLO! GRANDE ERA LA MANCANZA DI QUALCUNO CHE SAPPIA UNIRE COMMEDIA E LACRIME, CANZONI POPOLARI E MESSA IN SCENA, PERSONAGGI MASCHILI SENZA SFUMATURE E DONNE PRONTE AL SACRIFICIO. ORA IL NUOVO MATARAZZO SI CHIAMA OZPETEK

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

Marco Giusti per Dagospia

"Allacciate le cinture" di Ferzan Ozpetek


Bentornato mélo. Grande è la mancanza di un nuovo Raffaello Matarazzo nel cinema italiano, di qualcuno che sappia unire commedia e lacrime, canzoni popolari e messa in scena, personaggi maschili senza sfumature e donne piegate pronte al sacrificio nelle quali identificarsi.

Ecco, di fronte a questo "Allacciate le cinture" che segna, dopo un'esperienza non troppo riuscita con la Fandango, il ritorno di Ferzan Ozpetek a casa, cioè fra le braccia dei produttori Gianni Romoli e Tilde Corsi, con i quali fece nascere i suoi film migliori, "Le fate ignoranti", "La finestra di fronte", "Saturno contro", tutti scritti assieme a Romoli, pensiamo inevitabilmente al mélo matarazziano degli anni '50, adorato dalla turbocritica anni '70 antifofiana e antiaristarchiana, con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari e a tutti i suoi geniali meccanismi narrativi.

E' grazie al mélo che si riuscivano a superare i doveri morali del neorealismo e le paludi ripetitive della commedia, arrivando al grande pubblico italiano sempre pronto a piangere per le nostre tristi storie di tradimenti e di malattia dove i maschi sono in fuga e le donne subiscono qualsiasi tormento.

E' dinamite di sentimenti, si sappia. E con la dinamite c'è bisogno di estrema attenzione. Ovviamente è il cinefilismo di Gianni Romoli, vecchia volpe cineclubbara dei tempi di "L'Occhio l'Orecchio la Bocca", a spingere verso Matarazzo. Ma il senso di questo "Allacciate le cinture", che ci piaccia o meno, è proprio nel recupero del viaggio lacrimoso nel vecchio mélo dove qualsiasi cameriera si innamora, lotta per il proprio amore, e piange per un tradimento, un dolore, una malattia.

Se la statuaria ragazzona greca Yvonne Sanson, che Totò incontrava in "L'imperatore di Capri" ("Sonia quant'è bona!"), forniva a Matarazzo una specie di totem sacrificale dove appendere qualsiasi dolore provocato dal suo amore e dalla sua bellezza, Ozpetek si serve della bellezza apparentemente fragile di Kasia Smutniak e del suo bagaglio di dolore personale che tutti conosciamo, la tragica storia con Pietro Taricone eroe del "Grande Fratello", per farne un'eroina della passione e del dolore.

Kasia, bravissima, è qui la piccola cameriera di un baretto in quel di Lecce (te pareva, Apulia Film Commission...), che ha come migliori amici un ragazzo gay che parla romano, un Filippo Scicchitano davvero cresciuto, una turbolenta Carolina Crescentina dai grandi occhi azzurri. Ha pure un bel fidanzato siciliano un po' inutile, Francesco Scianna, una mamma che parla genovese, Carla Signoris, che vive con una strampalata zia che è in realtà la sua amante, Elena Sofia Ricci.

Anche se non si capisce minimamente cosa facciano tutti questi attori romani o non leccesi a Lecce, ma questi sono i dolori delle Film Commission, Kasia si innamora perdutamente del più stronzo, fascista, omofobo e razzista dei maschi del paese, il bell'Antonio interpretato dal già tronista e già curatore dei piedi di Lele Mora Fabrizio Arca, una specie di Antonio Cifariello muscoloso e tatuato come Pietro Taricone.

Ora, non solo Antonio-Arca è fidanzato della sua amica Carolina Crescentini, ma è proprio l'opposto di Elena-Kasia. Quanto lei è gentile, attenta alle diversità, pronta al dialogo, lui è una specie di bestia da scuderia Mediaset, ma anche un povero ma bello da anni '50 italiani, e questo deve essere piaciuto molto a Romoli e a Ozpetek. E' un maschio ruspante dal grande fisico e dallo sguardo un po' fisso, neanche un buon attore.

Ci si può innamorare di un burino simile? Certo che sì. E Kasia è pazza di Arca dal primo momento che lo vede, quasi senza saperlo. E' schiava di una passione che la porterà a tradire l'amica, a passare sopra all'omofobia e al razzismo del bel meccanico e a mettere su famiglia con lui. Sapendo che la tradirà, perché quello è il suo carattere, e sapendo che non potrà fidarsi di lui come capo famiglia, perché non è proprio affidabile.

Se Amedeo Nazzari si trovava invischiato sempre in situazioni di galera e di tormenti che lo escludevano dalla caduta nel dolore di Yvonne Sanson, Antonio - Arca, nelle mani di Ozpetek e Romoli, tredici anni dopo il suo incontro con Elena - Kasia, si autoesclude dalla sua vita perché non sa come affrontare civilmente un rapporto matrimoniale.

Al punto che Kasia prende sulle sue spalle tutto il peso dell'avere due figli, un lavoro che si è allargato, una madre con l'amica sempre più svalvolata, i mal di pancia dell'amico gay, l'amante parrucchiera del marito, una Luisa Ranieri favolosa come coatta napoletana (a Lecce...), che le rivela ulteriori tradimenti del suo uomo.

Questo pesante fardello giornaliero, Kasia e i suoi burattinai Romoli e Ozpetek lo fanno esplodere regalandole un bel cancro al seno. Equivalente moderno della fuga in America o del carcere per omicidio passionale di Amedeo Nazzari che provoca la solitudine di Yvonne Sanson e lancia il mélo.

Logico che Kasia non possa avere dal marito, ingrassato e incupito dal matrimonio, un vero aiuto nella lotta alla malattia. Se la dovrà sbrigare con l'aiuto della bella dottoressa Giulia Michelini, già studente al baretto nella prima parte del film, con l'amica di camera Paola Minaccioni, in un ruolo di fool terminale, molto brava, con l'aiuto ovvio del suo amico Scicchitano.

Ma è dalla sua solitudine profonda provocata dalla mancanza dell'attenzione del marito che cercherà di fare esplodere il mélo matarazziano. Logico che quel prosciuttone di Arca, che la Minaccioni ha già etichettato come macho-gay (brava...), ha dalla sua la forza dell'amore e arriverà a dichiararla rozzamente alla pora Kasia malata e senza capelli sul letto d'ospedale, scopandosela de brutto per amore in una delle scene credo, più trash della stagione, ma anche romanticamente offensive e antifemminili, quindi stracultissma.

Come rivela la battuta conclusiva della Minaccioni che ha visto tutta la scena: "Ai maschi non fa schifo niente". Nella terza parte del film si torna indietro nel tempo e si seguono gli sviluppi di tredici anni prima della coppia, veniamo a sapere come Kasia ha risolto i problemi con il fidanzato e l'amica, ma soprattutto torneremo a un tempo sospeso di felicità.

Ora, a parte il problema, per me non indifferente, di chiedermi tutto il tempo cosa faccia tutta questa gente a Lecce, cosa che nel cinema doppiatissimo anni '50 non ti chiedevi mai, il film è generalmente un buon ritorno di Ozpetek al mondo e ai personaggi che conosce meglio. E' anche un buon ritorno a una scrittura di cinema, grazie a Romoli, più adatta al suo modo di girare.

L'idea di frantumare la storia in queste tre parti, che più propriamente sono due atti con una specie di flashback finale, è interessante, perché non è consueta nel nostro cinema, come è interessante, ma non sempre riuscita, la tecnica di costruire e chiudere qualsiasi situazioni tragica e di mélo con le battute da commedia dei personaggi di contorno, le zie, l'amica malata, Scicchitano.

Se Arca, ma forse è giusto così per Ozpetek e Romoli, in quanto energia fisica pura, non sembra in grado di esprimere molto sullo schermo e si limita a mostrare i muscoli e un sederone da scopatore invincibile e invidiabile, Kasia è obbligata, non solo dalla storia, a reggere col suo sguardo e la sua bellezza il peso di ogni scena del film. Oltre che il peso di Arca.

E' attraverso di lei che dobbiamo capire che la passione vince tutto, anche il dolore e la malattia, è attraverso di lei che i personaggi che la circondano prendono davvero vita. Sul suo personaggio e sulla sua forza, di donna davvero provata dal dolore, Ozpetek e Romoli si giocano il film. E in quello sono vincenti, perché lei funziona, ci credi sempre, anche che si innamori di un bestione come Arca.

Credi meno, invece, nella struttura della seconda parte del film e nella costruzione del mélo, perché non sempre il teatrino dei sentimenti e della commedia dei personaggi di contorno si sposano bene e, se da una parte alleggeriscono la cappa di negatività della malattia, da un'altra la rendono meno forte in quello che dovrebbe essere il suo momento fiammeggiante.

Se punti a Douglas Sirk e a Raffaello Mattarazzo, insomma, anche se devi attualizzare il mélo, devi però arrivare all'esplosione, non puoi presentarti con la scopata di Arca con la moglie malata. Devi puntare a Giuseppe Verdi, non al mondo di Lele Mora e Alfonso Signorini. Anche se, ripeto, tutto questo tentativo di rimodernizzare e sporcare il mélo classico è molto interessante.

Detto questo, per fortuna non siamo di fronte a un'altra commedia, il ritorno al melodramma ci piace, Kasia è bravissima e quasi tutto il cast è in gran forma, soprattutto le incantevoli Elena Sofia Ricci e Carla Signoris. Scicchitano è diventato un protagonista. La canzone di Rino Gaetano, "A mano a mano", bellissima. Ozpetek, nel suo vero ritorno a casa, fa qualcosa di decisamente superiore ai suoi precedenti film Fandango. Sempre viva Matarazzo. In sala.

 

francesco scianna e kasia smutniak foto allacciate le cinture carla signoris kasia smutniak ed elena sofia ricci allacciate le cinture kasia smutniak francesco arca allacciate le cinture il regista ferzan ozpetek sul set ALLACCIATE LE CINTURE Allacciate Le Cinture FERZAN OZPETEK MARIA SOLE TOGNAZZI LAURA DELLI COLLI TILDE CORSI E GUENDALINA PONTI Tilde Corsi