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Marco Giusti per Dagospia
Poetico, duro, triste, umanissimo. Non portate i bambini a vedere questo favoloso La mia vita da zucchina, opera prima in stop-motion, cioè a passo-uno, ripreso un fotogramma alla volta senza animazione in digitale, diretta dallo svizzero Claude Barras. Non portateli perché non è un film per bambini, anche se i personaggi in scena sono quasi tutti bambini, anzi bambini pupazzo con grandi occhioni. E tutti con un passato tristissimo da dimenticare.
La zucchina del titolo è il protagonista, un bambino di nove anni, già senza padre, che uccide senza volerlo la mamma, alcolizzata, che stava salendo le scale per punirlo di aver portato in soffitta le lattine vuote delle sue birre per giocarci. Zucchina finisce così in un orfanotrofio fuori città dove troverà altri bambini come lui. Prima si scontrerà con loro, poi ne diventerà amico come in una qualsiasi situazione dickensiana.
E’ il rosso Simon, che preferiva chiamarlo Patata anziché Zucchina, a raccontargli il passato nero di ogni bambino della casa. E poi arriverà una bella bambina anche lei orfana… Scritto dalla regista e sceneggiatrice francese Céline Sciamma assieme a Germano Zullo e a Morgan Navarro, tratto da un romanzo di Gilles Paris, “Autobiographie d’une courgette”, il film di Claude Barras può vantare un notevole impegno produttivo di società francesi e svizzeri che ha già dato frutti notevoli.
Presentazione con successo a Cannes, premio del pubblico al festival dell’animazione di Annecy, ma è anche il film scelto dalla Svizzera, al di là del fatto che sia animato, per la corsa agli Oscar per il miglior film straniero di quest’anno.
I pupazzi, opera di Grégory Beaussart, sono favolosi, con grandi testoni tristi e occhioni che si muovono. E la tecnica dello stop motion, oggi usata così raramente, è particolarmente adatta al racconto. Anche perché sviluppa in forma poetica un raccontino che ripreso dal vero non potrebbe avere lo stesso fascino. In sala da giovedì, distribuito dalla Teodora Film.
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