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Marco Giusti per Dagospia
The Butler di Lee Daniels
Siete avvertiti. Solo gli inglesi sanno mettere in piedi le grandi storie nazionali viste dagli spiragli delle cucine, gli avvenimenti più terribili di principesse e regine raccontate dalle cameriere. Gli americani non hanno proprio questa grazia. Per loro è più facile massacrare la Casa Bianca con attacchi alieni o attacchi terroristici che avere quel distacco narrativo per rileggere la storia dal basso. Sono un po' cafoni. Ecco. E non poco tromboni.
"The Butler" di Lee Daniels, il regista nero che si era messo in luce con l'ottimo "Precious" e col meno riuscito "The Paperboy", mette in piedi attraverso la storia vera di un cameriere nero, Eugene Allen, che qui diventa Cecil Gaines, che nella sua lunga carriera alla Casa Bianca, tra il 1952 e il 1986, servì davvero ben otto presidenti, da Truman a Reagan, passando da Eisenhower a Kennedy, da Johnson a Nixon, da Ford a Carter, una serie di celebri pagine di storia americana. E tocca i grandi avvenimenti sociali e internazionali che segnarono il paese, dalla grande battaglia per i diritti civili ai Freedom Riders, da Martin Luther King alla morte di John F. Kennedy, dalle Pantere Nere agli anni di Watergate.
Cecil, interpretato da un perfetto, ma un po' troppo truccato Forrest Whitaker, deve rimanere impassibile di fronte a tutto ciò, anche se spesso vive sulla propria pelle gli avvenimenti sociali, perché ha un figlio attivista, che prima rischia la vita nel sud coi Freedom Riders, i ragazzi bianchi e neri che organizzavano pullman misti e venivano bersagliati dai razzisti del Ku Klux Klan, poi diventa un membro delle Pantere Nere con tanto di fidanzata con pettinatura afro passando alla clandestinità . E ha una moglie, la grande Oprah Winfrey, con la quale la sera riesce a scambiare le sue idee e a tornare sulla terra dopo le giornate spese a servire i presidenti e a sentire le loro idee per salvare il mondo.
Pensato anche come un grande film civile e storico alla "Lincoln" di Steven Spielberg, non possiede però la grandezza di scrittura di un Tony Kushner e la sua lucida analisi politica, e aiuta fino a un certo punto la parata di celebri attori che interpretano i tanti presidenti e le varie first ladies, dall'Eisenhower di Robin Williams al Kennedy di James Marsden con tanto di Jackie al suo fianco (Minka Kelly), dal Johnson di Liev Scheriber al Nixon di John Cusack fino al Reagan di Alan Rickman con Jane Fonda come Nancy Reagan.
Perché siamo presi un po' nel gioco del "chi interpreta chi?" e non seguiamo più bene il film. Meglio, allora, la parata di grandi star nere, da Terrence Howard a Cuba Gooding Jr., da Mariah Carey a Lenny Kavritz impegnati in ruoli minori di camerieri o amici o parenti di Cecil. E ancor meglio la storia personale di Cecil e di sua moglie Gloria nei rapporti col figlio attivista, sorta di controstoria nera d'America, visto che sarà proprio l'attivismo del figlio sia a portarci a un presidente nero come Obama, visto alla fine come ribaltamento finale della storia, il primo nero che diventa presidente americano, sia a valorizzare il ruolo stesso del cameriere nero, del butler, all'interno della storia del paese.
Visto che col suo rigore, con la sua grazia, la sua affidabilità , la figura un po' ambigua del "nero di casa", già messa in scena da Samuel Jackson in "Django Unchained" di Quentin Tarantino come male assoluto, diventa qui il santino del nero che sa ottenere il rispetto dai bianchi. Non a caso, infatti, il film prevedeva un'ultima scena con Cecil che stringeva la mano al vero Obama, poi cambiata per gli impegni del presidente, con Cecil che stringe la mano a un Obama attore e, infine, tolta al montaggio e sostituita con un repertorio del vero Obama, che già così dice tutto quello che Lee Daniels e il suo sceneggiatore Danny Strong volevano dire.
Si vede molto volentieri, non scherziamo, ha dei momenti notevoli come le prime scene alla "12 Years a Slave" con Cecil bambino nella piantagione cresciuto nella grande casa della padrona Vanessa Redgrave, ma l'effetto del polpettone non lo perde mai. Cosa che né "Precious" né "Paperboy", che cercava di raccontare il razzismo del sud negli anni '60 anche nei confronti delle coppie gay miste, erano. Però i duetti fra Oprah Winfrey e il marito che non la porta a vedere la Casa Bianca sono divertenti. E ha un ruolo importante in questa stagione dove, fra "12 Years a Slave" e "Fruitvale Station", il cinema americano nero sembra voler riscrivere la storia del paese a modo suo e con registi suoi. In sala dal 1 gennaio.
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