“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
Masolino D’Amico per “la Stampa”
La telefonata che mi comunica la scomparsa di Dario Fo accende un ricordo. Un po' più di tre lustri or sono mi trovavo seduto a questa stessa scrivania ed era più o meno la stessa ora quando squillò, proprio come oggi, il telefono: Dario Fo era stato poco prima insignito del premio Nobel, e qualcuno della Bbc voleva saperne di più sul personaggio.
Mentre parlavo in inglese con lo sconosciuto collega, la scrivania cominciò dolcemente a ruotare su sé stessa. Compì un inizio di semicerchio sulla sinistra, poi fece lo stesso verso il lato opposto; qualche libro cadde dagli scaffali. Mi resi conto che c' era un terremoto in atto (ricostruii in seguito che era stata la blanda ripercussione romana del devastante sisma in corso in Umbria). Ma ebbi pudore di manifestare una reazione, sia di allarme sia di ostentata imperturbabilità.
Feci finta di niente e continuai a rispondere alle domande. Retrospettivamente, ora che ci penso, sono contento di come mi comportai, e anche della convinzione con cui esortai l'intervistatore a credere che per una volta l'Accademia svedese ci aveva azzeccato. Sono contento di non essermi esposto all'accusa di acidità, diversamente da mio nonno Emilio Cecchi, che commentando il Nobel a Salvatore Quasimodo iniziò l'articolo con le parole «A caval donato non si guarda in bocca».
Il nonno pensava che, essendo vivi Ungaretti e Montale, gli svedesi avrebbero potuto pescare meglio. Io invece non avevo suggerimenti. Da spettatore di teatro, ovviamente amavo Fo e lo avevo sempre amato, fino da quando calava da Milano con le sue prime commedie chiamiamole commerciali, per le sale dei circuiti - farse velocissime, improntate a una comicità allegramente beffarda e discola che noi meridionali trovavamo diversa da quella più sorniona cui eravamo abituati (e che tra parentesi sembrò dimostrarsi intrattabile nel cinema, malgrado l'impegno del regista Carlo Lizzani: il film era Lo svitato, l'anno il 1956).
Alla grandezza naturalmente Dario Fo era arrivato dopo, quando era polemicamente uscito dai circuiti e con la preziosa compagna Franca Rame aveva dato vita al primo e insuperato esperimento di teatro per tutti, fuori dei luoghi ufficiali e dedicato a temi scomodi, di grande attualità: un teatro che contestava la tradizione in quanto disposto a reinventarsi formalmente, ma che poi, nel solco della tradizione, era scritto, scritto così bene da essere traducibile (non per caso sarebbe stato, e ancora è, rappresentato in tutte le lingue); e che, sempre nel solco della tradizione, era attentissimo alla comunicazione, ossia al rapporto col pubblico.
Prima ancora di avvincere, non bisogna annoiare: quanti teatranti rispettano questo comandamento? E Fo, per aggressivo, scomodo, polemico che potesse essere, era sempre impagabilmente attraente; sprizzava allegria, l' allegria del monello cui è impossibile negare complicità. Ma non era disposto a compromessi, la sua coscienza era una cosa sola con la sua arte.
Se mi è consentito un secondo ricordo personale, dovevano essere gli Anni Settanta quando il cinema cercò di tentarlo un'altra volta, e un produttore incaricò mia madre Suso Cecchi D'Amico, la sceneggiatrice, e Mario Monicelli di sondare la coppia in vista del possibile adattamento di qualche loro pièce.
Entrambi, sia mia madre sia Monicelli, ammiravano Dario e Franca molto di più del produttore, che per sfruttarli al meglio voleva per così dire addomesticare le loro storie; e quindi, quando quelli dissero recisamente di no a ogni proposta di ammorbidimento, si sentirono sollevati.
Dei due la vera irriducibile era lei, che col sangue che le scorreva nelle vene era anche il vero animale da palcoscenico. Ma lui aveva la grazia, l'eloquenza, la generosità nel darsi, e quella instancabile curiosità per l'animale uomo di tutte le età che lo resero unico. L'altro giorno un mio amico tifoso della Roma ha scritto a Totti ringraziandolo per averlo rallegrato per vent'anni. Cosa dovremmo dire, io e i miei coetanei, a Dario Fo?
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