DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Marcello Mancini per “la Verità”
Di Sergio Staino, comunista di razza, il creatore di Bobo, trasposizione a fumetti del compagno nostalgico, colpisce il pervicace attaccamento al Pd, il partito della vita. Nonostante la deriva destrorsa di Renzi, nonostante la disavventura personale alla direzione dell' Unità, nonostante che proprio nel partito riconosca il traditore della sua sinistra. Staino è uno di quei personaggi che ti fa riflettere sui valori seri della religione comunista, anche se non sono i tuoi. Se non sapesse di essere fuori dal tempo, sognerebbe ancora un' idea di rivoluzione.
LA PRIMA PAGINA DI STAINO SULLA CRISI DELL UNITA
Vittima della sua illusione, disarcionato dal Giglio magico, di cui però non ha mai fatto parte, sedotto e subito abbandonato dal Principe. E, per ultimo, messo in fuorigioco dalla sua redazione, che ha scioperato contro il 60 per cento dei tagli annunciato dall' azienda, definiti «macelleria sociale», contestando però anche l'ironia del direttore, contenuta in una vignetta pubblicata sulla prima pagina del giornale. Lo sciopero ha spinto Staino a staccare la spina, nonostante tutti (giornalisti e azienda) gli abbiano chiesto di restare.
VIGNETTA DI STAINO - GRILLO COME IL NAZISMO
Lei è più pentito, deluso o arrabbiato per quello che le è capitato?
«Mi sento amareggiato, soprattutto per questa incomprensione con i giornalisti. Io ho dato veramente il cuore per questa redazione, ho tentato fin da subito di limitare la "macelleria sociale". Allora sentirmi improvvisamente isolato è brutto. Tuttavia non incide sul giudizio generale di questa esperienza, che è stata formativa».
Cioè, rifarebbe la stessa scelta?
«Rifarei tutto».
Sarebbe pronto a tornare sui suoi passi, a ritirare le dimissioni?
«Se riuscissero a risolvere i problemi del giornale, che non riguardano poi un direttore, perché sono problemi aziendali, di forza lavoro, di qualità degli addetti, di finanziamenti; insomma, se riuscissero a risolverli e mi chiedessero di tornare, ecco, ci penserei. Tornare in questa situazione no, si è bruciata la fiducia. Non posso tornare in un ambiente che mi ha pugnalato alle spalle. È una situazione tragica quella che sento. Mi aspettavo di dover dare le dimissioni, prima o poi, ma pensavo di doverle dare in polemica con il Pd o con la proprietà. Mai e poi mai avrei pensato in polemica con i miei colleghi».
Qual è il sassolino più fastidioso che vorrebbe togliersi?
«Ma no, non ce ne sono, perché, vede, io non provo rancore. Infatti non ho neanche pensato di smettere di fare la vignetta. Mai pensato a delle ritorsioni. Anzi, capisco anche che questo comportamento abbia delle attenuanti. C'è una redazione stressata dalla continua sensazione di essere appesa a un filo: entrare al lavoro e pensare che potrebbe essere l' ultima volta, crea delle tensioni spaventose. In questo senso provo a ridimensionare l' esplosione di isteria nei miei confronti».
Il giornale vende poco, si è parlato di 6.000 copie. Dica la verità: c' è ancora spazio, nel disastrato mondo dell' editoria, per un «house organ»?
«Dipende dalla "house". Dal partito. Personaggi come Piero Fassino, Maurizio Martina, Andrea Orlando, Walter Veltroni, Gianni Cuperlo - ho escluso volutamente Matteo Renzi, perché è quello più incomprensibile - dovrebbero capire la necessità di un lavoro più collegiale. Non si può fare politica senza avere alle spalle un partito che ti collega con i territori, soprattutto quando i territori sono allo sbando per gli scontri con i migranti, con la criminalità. Per collegare il partito alle avanguardie e far sì che siano in grado di organizzare associazioni e circoli, è fondamentale uno strumento che tenga insieme un' area politica progressista. Cioè il giornale. Altrimenti i populisti vincono. Oggi a presidiare il territorio, a mio avviso, sono più la Caritas e il volontariato cattolico che la sinistra».
Riscriverebbe la famosa lettera a Cuperlo, in cui difendeva Renzi e attaccava la sinistra dem?
«Attaccavo la sinistra dem perché chiudeva pregiudizialmente a uno che era diventato segretario con delle regole dettate dalla sinistra dem, cioè da Luigi Bersani, e non da Renzi. Lui aveva vinto le primarie ed era doveroso collaborare; poi magari, in un secondo momento, si poteva rompere. Ma la rottura pregiudiziale è stata un disastro: ha spostato a destra Renzi e isolato la sinistra. Ora si cerca di ricucire, ma di danni ne sono stati fatti tanti».
Allora di chi è la colpa?
«Credo che si debba attribuire all' incapacità della sinistra di vivere una sconfitta che aveva preparato con le proprie mani. È vero che Renzi è un' altra cosa rispetto a loro, ma Renzi ha saputo cavalcare quel disagio nei nostri compagni, che loro non avevano preso in considerazione. Le colpe, semmai, sono da tutte e due le parti».
Non le pare un po' illusorio pensare che un tipo come Renzi, deciso a rottamare gli eredi del Pci, avesse a cuore il giornale fondato da Antonio Gramsci?
«Quando ho parlato, a lungo, con Renzi - sa, due anni fa ci parlavamo...- mi aveva colpito perché lui alla direzione dell' Unità avrebbe voluto qualcuno degli ex Ds. Diceva: "Se metto uno dei miei a dirigerla, il giornale nasce morto. Ci vuole uno della sinistra, che lo faccia vivere. Non voglio mica un giornale sdraiato sul governo; voglio che faccia discutere, che unisca la sinistra". La propose a Cuperlo, che rifiutò perché non si fidava. Io ci ho provato, come facevo a dire di no in quella situazione? E ho fatto un giornale aperto alla sinistra, sul quale hanno scritto da Fassina a Moni Ovadia. Mi è mancato però l' appoggio del partito, che in nessun momento ha mai riconosciuto come suo questo giornale».
C'è ancora posto nel Pd per uno con la sua storia, o si sentirebbe più a casa in compagnia di Roberto Speranza, Luigi Bersani, Enrico Rossi, che fra loro si chiamano «compagno» senza arrossire?
«Loro sono molto autoreferenziali. A me piace rimanere dove c' è la massa grossa del partito, cioè nel Pd. Fuori vedo tante singole vanità. Fassina ha delle idee molto a sinistra. Ma a cosa servono? Ci sono Pippo Civati, Roberto Speranza: per andare dove? Massimo D' Alema si è mostrato uno che pensa solo a sé stesso, alla sua vanagloria, si crede un genio. No, io rimango nel Pd. È vero: sono venute fuori certe vanità dirigenziali di Renzi che non possono essere sconfessate; con il governo non ha fatto tutto, ma ha fatto molte cose buone, soprattutto a livello internazionale e sui diritti civili. Però è un fatto che al di fuori del Pd non c' è storia».
Oggi Renzi canta vittoria, anzi, trionfo, dopo il voto nei circoli, dove peraltro ha votato meno della metà degli iscritti. Pensa che abbia ancora chance di tornare alla guida del Paese? O meglio: pensa che il Paese corra ancora questo rischio?
«Vincerà le primarie. Ma non raggiungerà numeri così alti. Mi piacerebbe che salisse la percentuale di Andrea Orlando, anche per il bene di Renzi, che se dovesse recuperare la forza che aveva prima del referendum rifarebbe gli stessi errori. È uno che accentra troppo, non riesce a lavorare con gli altri. Questo dovrebbe imparare a farlo».
Una volta lei ha detto che D' Alema è il personaggio più deleterio della sinistra italiana. Insomma ce l' ha più con lui che con Renzi?
«Certamente. Se siamo in questi casini, la responsabilità non è di Renzi, ma di D' Alema e di gente come lui. Non ha saputo guidarci, ha sempre tenuto un atteggiamento di supponenza micidiale e dannosa».
Secondo lei la cosiddetta base da che parte sta?
«La base sente molto la paura dei grillini e dei populismi. Chi ha preso una posizione netta nei loro confronti, unendo centro e sinistra riformista, è stato Renzi. Paolo Gentiloni ha mostrato di essere un pacato servitore dello Stato e va bene, ma una persona dinamica che riesca a guidare in qualche direzione il Pd rimane ancora Renzi».
Però a quale prezzo gli elettori dovrebbero votare per il Pd di Renzi solo per fare argine contro il populismo?
«Se vincesse Beppe Grillo il prezzo sarebbe più alto. Entreremmo in una crisi di ingovernabilità che abbiamo già vissuto nel passato: gli anni 1919 e 1920 ce li ricordiamo. Se dovessimo arrivare nella situazione più difficile, preferirei piuttosto l' alleanza con Silvio Berlusconi, che un senso dello Stato ce l' ha. I grillini no, sono una tribù: sarebbe la distruzione della democrazia».
Staino, lei andrà a votare alle primarie del 30 aprile?
«Sì, e voterò per Orlando. Mi sembra che ne abbia bisogno».
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