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Fulvia Caprara per “la Stampa”
Un Pinocchio americano girato in Italia. Adesso che, insieme alla moglie Susan, è diventato anche produttore, Robert Downey jr. coltiva sogni cinematografici che potrebbero diventare realtà e che ben poco hanno in comune con blockbuster stile Iron Man: «Susan è una produttrice fantastica, riceviamo un sacco di sceneggiature, ma pensiamo che a Hollywood potremmo correre il rischio di sprecare il nostro denaro... Insomma, ci piacciono altre cose, per esempio i drammi ambientati in tribunale, come Perry Mason, e storie come quella di Pinocchio».
Alla prima categoria appartiene The judge (nelle sale dal 23 con Warner) in cui Downey jr. è un eccellente avvocato che decide di difendere il padre anziano e malato (Robert Duvall) con cui ha sempre avuto un rapporto fortemente conflittuale: «Quello che amo di questa vicenda - dice l’attore - è il senso di casa, la descrizione di come il personaggio, che si è allontanato dai luoghi della sua giovinezza, vi debba poi ritornare per affrontare tutte quelle cose che ha evitato per anni e che improvvisamente gli si rovesciano addosso».
I paralleli con il privato sono inevitabili e Downey jr. non si sottrae: «Che tipo era mio padre ? Uno stronzo. Vogliamo star qui a parlare di quanto sia stato stronzo mio padre? I legami tra padri e figli possono essere molto difficili. Questo film mi ha fatto riflettere sulla famiglia e sulle rotture che spesso si consumano tra i suoi componenti».
Un classico tema del cinema che, in The judge, regia di David Dobkin, si intreccia con quello, altrettanto tradizionale, del confronto tra uomini di legge: «Credo - osserva Downey jr. - che la giustizia negli Stati Uniti sia una cosa complicata, ma che in complesso funzioni. Qualche giorno fa leggevo un libro sulla caduta dell’Impero Romano, ho pensato che da allora, in fondo, ben poco sia mutato».
L’avvocato che interpreta nel film è un arrogante senza scrupoli, uno che, come dichiara in una delle battute iniziali, non perde tempo a difendere gli innocenti: «Hank è un uomo che non vuole vivere le emozioni, nella sua professione è abituato a vincere, e gran parte della sua identità è legata a questo... Ha innalzato un muro di protezione intorno al suo Io emotivo, scegliendo di respingere ogni occasione per riflettere su se stesso, ricorrendo sempre al sarcasmo e alla superiorità intellettuale».
L’unico che riesce a infrangere la sua corazza di egoismo, è il padre. Quel padre amato e poi rinnegato, da cui è fuggito lontano, e che adesso, anche se non vuole ammetterlo, ha bisogno di lui: «È una storia meravigliosa - dice Duvall, 83 anni di grande cinema, dal Buio oltre la siepe a Apocalypse now, dal Grinta a La conversazione - , una sceneggiatura brillante, animata da quel genere di personaggi che noi attori cerchiamo sempre. Quanto all’essere genitori... bè non credo esista un modo valido per tutti. Bisogna tentare di comunicare con i figli, una cosa difficile, ma io sono un padre adottivo e posso dire solo che cerco di fare del mio meglio».
Per creare intesa con Robert Downey jr., è bastato andare a pranzo e a cena insieme un po’ di volte: «Dovevamo imparare a conoscerci, abbiamo mangiato insieme, abbiamo parlato, poi ci siamo preparati, siamo andati sul set e abbiamo recitato. Facciamo gli attori, questo è il nostro lavoro». Grazie all’industria cinematografica indipendente, osserva l’attore, oggi è diventato nuovamente possibile fare film, come The judge, che ricordano le produzioni Anni Settanta: «Il mio personaggio mi ha offerto tanti spunti interessanti su cui lavorare, tante cose da trovare dentro me stesso».
Tra i ricordi italiani ce n’è uno che gli è rimasto particolarmente impresso: «Ho conosciuto Massimo Troisi in Messico, sul set di Hotel Colonial. Il film era terribile, ma Massimo era meraviglioso, aveva un incredibile senso dell’umorismo, ci siamo divertiti un mondo, parlavamo sempre di calcio, io ne vado pazzo. Dicevamo che Maradona era meglio di Pelè, e io Pelè, quando avevo 12 anni, l’ho visto giocare».
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