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ADDIO A MARTA MARZOTTO
Il Giornale.it - Marta Marzotto, ex modella, stilista e regina dei salotti, se ne va a 85 anni. A febbraio, quando aveva festeggiato il compleanno a Cortina con tanti invitati nella casa dell'amico gallerista Stefano Contini, aveva confidato di sentirseli tutti questi 85 anni. "Sono stanca - aveva detto al Corriere del Veneto - ma come si fa a farlo pesare sugli altri, sono tutti così gentili e carini, non hanno colpa della mia stanchezza. E poi ho troppe cose da fare, idee, progetti, eventi".
SMERALDI A COLAZIONE
Marco Cicala per Il Venerdì di Repubblica
L’ultimo memoir di Marta Marzotto si intitolava ‘Una finestra su Piazza di Spagna’ e risaliva al 1990. Da allora l’attesa di una nuova autobiografia up to date si era fatta semplicemente divorante. Eccola infine appagata da ‘Smeraldi a colazione’, il libro di ricordi (Cairo editore) che la Contessa ha scritto con Laura Laurenzi e che assomiglia a una vertiginosa impresa di archeologia subacquea.
Umberto Annalisa Paola e Marta Marzotto
Ti ci immergi e nuoti tra le vestigia di una remota civiltà chiamata Prima Repubblica che a un certo punto si inabissò come Atlantide. Marta Marzotto – nata Vacondio a Reggio Emilia nel 1931 – ne fu la Madame de Sévigné. Serpeggiando tra arte, politica, moda, molta charity, ancor più society ed eccessi assortiti che seppellirono quasi tutti i protagonisti di quell’evo, tranne lei.
Era un mondo abitato da una fauna singolarissima, spesso ribalda, di certo irripetibile. Ne facevano parte annosi presidenti partigiani che al Quirinale allungavano le mani sulle altrui signore, tranquillizzandole: «Non tocco per toccare, ma solo per attirare un po’ l’attenzione»; pittori comunistissimi che di colpo si convertivano misteriosamente al cattolicesimo di rito andreottiano; playboy marxisti che non si sedevano a tavola «se il gigot d’agneau non era servito con la salsa di menta e il purè di mele, se il caviale non era GGG, Grossi Grani Grigi, e se il tartufo non era bello grande e bianco, senza venature violacee».
E poi conti che si facevano la barba con un canarino sulla spalla; capibastone democristiani che pronunciavano nello stesso identico modo le parole denti, tanti e dandy o leader socialisti che a certe amiche regalavano emittenti televisive e ad altre amiche ceste natalizie riciclate con dentro «cotechino, torrone e prosecco (neanche champagne)».
Sandro Pertini, Renato Guttuso, Lucio Magri, Umberto Marzotto, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi... Amici, amanti, mariti... Donna Marta li rievoca tutti con tenerezza variabile. A 85 anni si dice fiera della sua «faccia da squaw». E con l’autoironia che è sempre stata il suo elisir di giovinezza sogghigna alla battuta di Roberto D’Agostino: «Non baciate la Marzotto. Vi attacca le rughe». Anche se non è obbligatorio crederci, MM giura di essersi arresa alle lusinghe del lifting soltanto in un’occasione: «Era un periodo buio». Non lo rifarebbe. Ormai si piace un sacco così com’è. E contravvenendo alla sua leggendaria generosità ha dedicato il nuovo libro a se stessa. Ma da ragazza non si apprezzava granché: «Troppo magra, longilinea, con qualcosa di selvatico e nulla di mediterraneo».
Francesco Micheli Marta Marzotto Alessio Vinci Dago e Barbara Palombelli
Figlia di un casellante ferroviario e di un’operaia, si temprò come mondina nelle paludi lomellinesi, con le foglie di riso che le rasoiavano le gambe e i carbonazzi, «enormi bisce nere che sentivo sgusciarmi attorno alle caviglie». Dalle marcite scappò trasformandosi in modista e poi modella. Fino a farsi notare da Umberto, erede Marzotto, che impalmandola le regala il titolo di contessa e cinque figli. Sono tempi di una mondanità ancora castigata. Delle battute di caccia all’anatra con un Hemingway molto bukowskiano («A tavola era già ubriaco. Aveva perso i freni inibitori, ruttava e scoreggiava») o con il caudillo Francisco Franco sparando alle pernici iberiche.
marta marzotto lamia kasshoggi marinella di capua valeriamarini laura morino tesomarta marzotto 4marta marzotto 7
In vacanza, Marta simpatizza col Ranieri di Monaco in fase pre-Grace Kelly e con Onassis in fase Callas. Dalle pareti di casa Marzotto pendono cosucce di Tiziano e Tiepolo; ma la contessa è triste lo stesso. Benché dorata, quella vita le va stretta. Qualche anno prima, incontrandola nel feudo tessile di Portogruaro, Guido Piovene l’ha definita «ragazza imprecisabile». Adesso invece MM è precisamente depressa. Così un altro scrittore veneto, che di male oscuro se ne intende, Giuseppe Berto, le consiglia di andare a farsi dare una controllatina dal suo psicoanalista di fiducia a Roma. «A guarirmi, a salvarmi non è stata la psicoanalisi: è stata Roma... Non era più la città della Dolce vita, ma quella di De Chirico, Sciascia, Moravia, Elsa Morante, Rossellini, Visconti. E naturalmente di Guttuso».
Renato. Renato. Renatooo! Con lui Marta si sente rinata. È uscita una buona volta dalla crisalide e il pittore finirà per chiamarla «la mia dolce libellula d’oro». Su quell’amour fou si è detto, favoleggiato, malignato fino all’indigestione se non di più. Però il libro aggiunge pennellate inedite. Guttuso – che Pertini si ostinava a chiamare Gattuso e i maligni del caffè Rosati «la picassata alla siciliana» per via delle affinità col maestro spagnolo, giudicate scimmiottamenti – è un mediterraneo nella variante antisolare, tetra. Lavorando fuma a manetta, trinca quanto Jackson Pollock.
«Per te potrei anche smettere di bere, mi sussurrava. Gli rispondevo: Non smetterai mai, perché se sei felice brindi, e se sei infelice ti ubriachi per dimenticare. In lui covava un autentico cupio dissolvi». Quando non stava lì a cupio dissolversi, Renato le scriveva lettere crepitanti di brama. Secondo stime approssimative sarebbero circa 5 mila. Guttuso la desidera, la sogna, la ritrae. Spesso nature. Ma lei assicura: «Non ho mai posato per lui né per nessun altro. Mai: né vestita, né nuda, né seminuda».
Sono entrambi coniugati, però il severo Pci – di cui Guttuso rimarrà fino all’ultimo intellettuale organicissimo – accetta la liaison. Alle feste dell’Unità i militanti chiamano Marta «la compagna bionda». Ma lei è born to be wild, nata selvaggia e libera, una Carmen della Bassa. Nel ‘76 conosce Lucio Magri. Bellissimo e dal «curriculum decisamente sofferto»: Dc, Pci, manifesto, Pdup, poi di nuovo Pci. «Un precursore di certi politici di oggi. La nostra fu una storia importante, che durò dieci anni. Diceva di amarmi. La verità è che amava solo se stesso».
Il ritratto di Magri, rivoluzionario vanesio, è impietoso. Fin troppo: «Un’intelligenza cattiva, feroce. È come se rimproverasse al mondo che il suo sogno di essere accanto a Che Guevara non si era mai avverato»; «amava la tavola apparecchiata con tovaglie preziose e ricamate e le stoviglie dovevano essere d’argento». MM si definisce «la sola persona di estrazione proletaria» che lui abbia mai frequentato. Ruppero malamente. E nel libro senti friggere ancora un tot di rancore. Nel 2011, poco prima che Magri, profondamente prostrato, decidesse di morire in Svizzera con suicidio assistito, Marzotto fu sul punto telefonargli dopo tanto tempo. Però non ci fu verso. Gli impegni mondani glielo impedirono.
Marta Marzotto Nancy Dellolio TRV
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Comunque il tradimento della libellula devastò Guttuso. Che si vendicava ritraendo il rivale con fattezze da orango. O componendo devote parodie: Ma liberaci dal Magri e così sia. Quando scopriva che Marta aveva giaciuto con Lucio, Renato reagiva sempre alla stessa maniera: scagliando «con tutte le sue forze» i pesanti bicchieri di whisky contro le tele in lavorazione.
Peccato per le tele. Ma anche per i bicchieri. Erano di Lalique. Glieli aveva regalati lei. Che con temibile dialettica argomenta: «La gelosia si rivelò per Renato una straordinaria spinta creativa. Senza quella molla non avrebbe dipinto tanti capolavori». Santa Marta. Ma nel giro di poco sarebbe diventata una reproba. Travolta da quel pasticciaccio che fu la morte di Guttuso, 18 gennaio 1987.
RENATO GUTTUSO E MARTA MARZOTTO jpeg
Uno gnommero di eredità contese, figli adottivi e naturali, epistolari confiscati più la presunta conversione in extremis che si consumò in un clima danbrowniano.
Con apparatchik di Botteghe Oscure, emissari andreottiani e vaticani saldati in un’unica palizzata a protezione dell’agonizzante. Del catto-comunismo, il funerale di Guttuso sarebbe stato l’apoteosi macabra. Il feretro, in radica di rosa della Costa d’Avorio, venne portato da piazza del Pantheon a Santa Maria sopra Minerva sulle note dell’Internazionale. Tra i pochi che rifiutarono di seguirlo in chiesa, Bettino Craxi. «Entrarono invece Alessandro Natta, Nilde Iotti, Antonello Trombadori, Giancarlo Pajetta, Gian Maria Volonté, Renato Nicolini, Ugo La Malfa». Giorgio Bocca commentò: «Spettacolo di losca volgarità».
Al capezzale di Guttuso si erano ritrovati «vecchi arnesi dello stalinismo e del clericofascismo... Tatò, Bufalini, Andreotti, monsignor Angelini... e mancava, per forza carceraria maggiore, il faccendiere Pazienza». In collisione con l’Unità, di cui era costola, il satirico Tango avrebbe titolato: Dio c’è... e vuole la sua parte di eredità. In una vignetta di Staino, la figlia chiedeva a Bobo: Com’è che tanti comunisti da morti diventano cattolici? Risposta: Meno male che non diventano craxiani da vivi. Mentre Vincino «raffigurava un Guttuso morente che di fronte all’annuncio C’è Marta Marzotto alla porta, risponde: Preferirei la Cuccarini».
MARTA MARZOTTO E RENATO GUTTUSO jpeg
RENATO GUTTUSO E MARTA MARZOTTO A MILANO jpeg
Quella porta MM non riuscì mai a varcarla. Renato morente non glielo lasciarono vedere. Raus. Sciò. Circolare. La «falange macedone» dei suoi tanti amici evaporò di botto. Con sincronizzazione coreografica, quasi tutto il Pci le voltò le spalle. Iotti, Napolitano, lo stesso Magri. Perfino il conte Marzotto decretò il divorzio dopo oltre trent’anni di matrimonio molto sportivo. Un periodaccio. Eppure la decade degli Ottanta segnò il trionfo del marzottismo. In forma di salotto casalingo o televisivo, quello allestito negli studi di Gbr, l’indimenticata tv romana «che Craxi regalò all’amica Ania Pieroni» e che perciò fu ribattezzata Telebettino.
MARTA VACONDIO SPOSA IL CONTE UMBERTO MARZOTTO jpegmarta marzotto (14)
Roma, Milano, il Nordafrica, e tanta, tantissima Costa Smeralda. Nei primi Sessanta, la Contessa ne era stata scopritrice antemarcia. Lì Franco Citti – ex Accattone diventato un po’ guardone – la spiava mentre lei nuotava con addosso nient’altro che un velo d’olio profumato al bergamotto, «marca Zibeline, oggi introvabile».
MARTA MARZOTTO SERATA SANPATRIGNANO
Lì il figlio di Gheddafi Mutassim fece arrivare una nave da guerra libica affinché Marta – grande amica di famiglia – potesse organizzarci una soirée col ponte «ricoperto di tappeti orientali disseminati di petali di rosa», la carne di montone e di cammello, le fette di anguria con grani di caffè incastrati uno per uno al posto dei semi. E poi la memorabile «grande bouffe per le nozze d’argento di Paolo Villaggio, mentre Fausto Leali cantava A chi solo per noi».
Lo yacht di Roberto Cavalli «con lo scafo che cambia colore a seconda dell’inclinazione dei raggi del sole». E un tourbillon di percussionisti berberi, dervisci, danzatrici del ventre e di flamenco; alle chitarre Los Paraguayos o i Gipsy King. Ma «una delle serate più riuscite fu la festa per i vu cumprà della costa, che non credevano ai loro occhi quando gli fu recapitato l’invito. Alcuni vennero con mogli e figli, vestiti a coi costumi africani. Avevo fatto preparare due menu: uno sardo e uno etnico».
Si sa, certe feste – per non dire dei salotti – si sono estinte. Ma anche se all’epoca alcuni di noi ci sarebbero andati solo con le mani incrociate dietro la nuca e la punta del fucile che preme sulla schiena, vale la pena chiedersi: ok, sono sparite, ma sostituite da cosa? Forse da roba peggiore. Metti gli inqualificabili apericena.
Nel libro Marzotto confessa che il letto è ancora il suo regno. Ma ormai per farci le telefonate, le parole crociate, i solitari («un modo intelligente per rilassare il cervello nella solitudine» diceva indovinate chi? Renato). Ogni giorno si fa ancora stirare le lenzuola di lino ricamato con il ferro a vapore passato fumante direttamente sul materasso.
Continua a ritenere che l’ambra le porti sfiga e che i gioielli non vadano indossati a cena ma a colazione, perché di notte tutte le collane sembrano uguali. Si domanda se sia mai stata felice e si risponde: «Emozionata, gratificata sì, ma felice no. Non ne ho avuto il tempo». Le capita spesso di piangere. Pensando in generale alla ressa che affolla il suo passato e in particolare ad Annalisa, la figlia morta a 32 anni. Non crede in Dio. Al limite alla reincarnazione.
beatrice borromeo marta marzotto
Ricordando le serate con lei, Alberto Arbasino ha detto: «Il nostro segreto? Era che ci divertivamo a morte». E chi si è tanto divertito andrà in Paradiso. Anche se corre voce che non esista.
2. MARTACCI!
Laura Laurenzi per Il Venerdì di Repubblica
A chi vuoi dedicare il libro? le chiesi l’ultimo giorno. La contessa non ebbe esitazioni: «A me stessa!». Non sette vite però, sette anni: tanto abbiamo lavorato, con interruzioni, iati, sospensioni, cambi di editore, psicodrammi, a questo tormentato progetto. Marta raccontava, ma soprattutto divagava, partiva per la tangente e io prendevo appunti. Shakerando date e ricordi, ma sempre sull’onda di una memoria implacabile, passava mai frastornata da una caccia alla pernice ospite del generalissimo Franco al cannibalismo, parola sua, con cui fu divorata alla morte di Guttuso, dalle feste sugli yacht dell’Aga Khan e di Niarchos alle lacrime soffocate con pudore ogni volta che il suo pensiero correva alla morte della figlia Annalisa.
berlusconi marta marzotto apicella
Il flusso di ricordi e di emozioni spesso si inceppava e anche la concentrazione, colpa del campanello: al telefono, alla porta, al citofono, alla finestra bussava la vita vera. La corte che si è sempre stretta attorno all’impetuosa contessa non si è mai dissolta. Nella sua teatrale casa affacciata sul Tevere, spesso in camera da letto all’ombra di vari Guttuso, l’andirivieni di clientes, amici & amiche, venditori di gioielli, segretarie tuttofare, fornitori, nipotine biondissime, principesse, stilisti, parrucchiere e scrocconi è continuato compatto.
Mimmo Cavicchia e Marta Marzotto Marta Marzotto canta con lo stornellatore
Mentre rievocava con humour una colazione con Hemingway ubriaco e flatulento, un salto in discoteca con Quasimodo («come ballerino non era un granché»), un eclissi totale e un tè nel deserto con Gheddafi junior, un’affettuosa manomorta da parte del presidente Pertini, Marta continuava a progettare, lavorare, produrre, disegnare, firmare. E a togliersi qualche sassolino dalla scarpa, anomala testimonial della Prima Repubblica.
Poi spariva all’improvviso, e lo fa ancora oggi, a 85 anni, senza preavviso. Di colpo mi arrivava una telefonata da Hong Kong, un sms da Istanbul, un messaggio in segreteria da Punta del Este, in Uruguay, dove si era rifugiata per qualche giorno nella villa della figlia Paola. Una villa così sontuosa che la contessa se ne fece costruire un plastico con piscine, parco, colonnato che mi mostrò con orgoglio; delle semplici foto non sarebbero bastate: «Non puoi non venire».
Larger than life. Tutto in lei è fuori scala, XXL: gli smeraldi, i caftani, le amicizie, gli sbalzi di umore, gli agi, i capricci, le case, gli amori, la beneficenza, il narcisismo, l’insonnia, il rotolo di banconote con cui, lei nata mondina, va in giro seminando mance e regali. Il successo dell’eccesso: mai accontentarsi delle mezze misure e dei cauti compromessi piccolo-borghesi. Ti è venuta fame? Serviti pure. In frigo trovavo o caviale iraniano oppure mortadella, nulla di intermedio, a volte neanche il pane.
Darina Pavlova con Siedah Garret e Marta Marzotto
Guai a prendere appunti con una penna blu, con qualunque penna che non fosse nera. Mai appoggiarle la borsa sul letto, dove lei in camicia da notte ricamata riceveva la cerchia più intima: erano urla, improperi, scongiuri. I suoi attacchi di collera, le sue ire funeste, sono paragonabili solo ai suoi eccessi di generosità. Nulla la eccita più che fare regali, tramortire il prossimo con doni da mille e una notte.
Il fatto che Dante abbia messo prodighi e avari nello stesso girone dell’Inferno non l’ha mai convinta. Ma poi quale inferno, quale paradiso, a lei piace credere di essere immortale: «Se proprio devo morire» mi disse, «quel giorno arriveranno gli scienziati della Nasa e mi squarteranno per vedere come sono fatta dentro, per esaminare i circuiti, i microchip, le schede, l’hard disk. Capire che animale strano che ero, e svelare il mistero di questa infinita energia che mi porto dentro».
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