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FLASH! - OGNI GIORNO, UNA TRUMPATA: NON SI SONO ANCORA SPENTE LE POLEMICHE SULL'IDEA DI COMPRARSI…
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Il ragazzo col ciuffo impomatato ha la testa e gli occhi bassi, accovacciato, pensoso, scarpe, pantaloni, giacca, camicia sobriamente anni Cinquanta. È in penombra in una insolita foto bianconero, ma basta un colpo d’occhio, non puoi sbagliare, è Elvis.
Sugli altri lati del cubo che raccoglie 60 cd (The Album Collection: opera omnia + tre volumi di inediti e rarità di tre decenni + patinatissimo volume di 300 pagine in uscita venerdì a un prezzo variabile tra i 212 e i 289 euro), immagini diverse di una maschera inconfondibile.
Intenso, strimpella la chitarra e canta a occhi chiusi; foulard al collo, sguardo magnetico; di spalle nell’intimità dello studio di registrazione; infine, bolso, deformato, ammiccante, cafone nella sua ridicola tutina bianca tempestata di strass - l’eleganza del rocker di Heartbreak Hotel è prima involgarita dagli anni 60, poi stuprata dai 70. Eppure potentissimamente Elvis.
È morto quasi 40 anni fa, a Memphis, il 17 agosto del 1977, a 42 anni, malconcio, vita e carriera spesi tra il Sud e Las Vegas; in Europa solo per il servizio di leva, mai un concerto. Come ha fatto Elvis a diventare un’icona mondiale e transgenerazionale?
Come è possibile che Graceland, la sua magione, sia ancora un luogo di pellegrinaggio che fattura milioni e i suoi dischi abbiano la forza e il potere di essere riconfezionati e venduti in combinazioni eternamente appetibili? Prodigiosa strategia di marketing? Non basterebbe.
Ne abbiamo visti in mezzo secolo di artisti affogati in bicchieri d’acqua, cantanti con un paio di clamorosi successi finiti nel dimenticatoio, stelline sciacquate via dalle nuove ondate (quante certezze del mercato fece crollare la disco music? Elvis si risparmiò l’umiliazione appena in tempo).
Chi ha visitato Tupelo, la sua città natale, e Memphis e Graceland, sa che dietro il fenomeno da baraccone che gli eredi esibiscono senza pudore, c’era un performer unico, innovativo, spregiudicato, carismatico, capace di suggestionare le masse e terrorizzare i potenti (i faldoni della Cia parlano chiaro); un artista che pretende rispetto anche da chi non l’ha mai amato.
Oggi che lo show business vive di luce riflessa, comprendere questi fenomeni è ancora più difficile; un’opera monumentale come l’ultimo cofanetto di Elvis si acquista con lo stesso interesse del catalogo patinato di una mostra che abbiamo amato, di una litografia di Warhol, di una pregiata edizione della Recherche. Non riusciamo a scorgere tra i contemporanei un solo artista che a quarant’anni avrà lavorato così intensamente e creativamente da poter tramandare “opus” di queste dimensioni.
Ci voltiamo indietro e ne troviamo dozzine, indefessi manovali della musica che in una vita hanno prodotto con la stessa lena di Le Corbusier, Gehry e Renzo Piano. Basti citare i tre di cui appena l’anno scorso si è celebrato il centenario della nascita: Frank Sinatra, Billie Holiday, Edith Piaf (nel 2017 è in arrivo quello di Ella Fitzgerald) – tutti hanno lasciato una gigantesca mole di incisioni, tutti sono stati onorati con prestigiosi cofanetti (il più singolare quello della Piaf a forma di accordéon).
E continuano a spuntare inediti, nastri dimenticati, incisioni all’epoca considerate trascurabili che in questo medioevo del pop vengono riscoperte come tesori. Vale per Miles Davis e Bob Dylan, che hanno avuto una lunga e onorata carriera, ma anche per Jimi Hendrix, che è morto a 27 anni ma, a giudicare da quel che ha lasciato, deve aver suonato (e inciso) ogni singolo giorno della sua vita. Quelli come Judy Garland, Ray Charles, Elvis e Sinatra li chiamavano “the hardest- working people in showbusiness”.
Privilegiati di sicuro, ma quotidianamente in trincea. Si lavorava tanto, sul palco e in studio di registrazione. Il primo long playing di Sinatra (profeticamente intitolato The voice) fu pubblicato proprio di questi giorni, nel 1946, settant’anni fa. Allora era un teen idol e ne sfornava uno ogni stagione, per non parlare dei tre concerti quotidiani che teneva al Paramount di New York mandando regolarmente in tilt Times Square.
Devastato dalle alzate d’ingegno di astutissimi ma poco lungimiranti uomini di marketing, il pop si è trasformato nell’ospizio dorato di artisti viziati. Forte di vendite milionarie - prima della grande depressione discografica d’inizio millennio – le popstar, tra crisi e ripensamenti (U2 compresi), ci concedevano un singolo ogni due anni, un album ogni quattro, un tour ogni cinque (solo la crisi del disco ha riportato tutti on the road).
Oggi siamo alla frutta, the hardest-working people in showbusiness, poveretti (loro, ma anche noi!), sono i ragazzi dei talent, che per mesi si fanno imboccare brani di repertorio da improbabili giurati. Sforzi improduttivi e che non lasciano il segno: le vendite del catalogo dei grandi, quelli veri, hanno ormai sbaragliato il mercato delle novità.
I cofanetti sono in bella mostra, e con la stessa dignità, accanto a Callas e Glenn Gould. Beatles, Rolling Stones, Bowie, Keith Jarrett, Bill Evans, Coltrane, Monk: fra dieci anni tutti negli scaffali della classica con Mozart e Vivaldi. A meno che da qualche parte non si materializzi un nuovo Elvis.
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