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Francesco Musolino per il “Fatto Quotidiano”
Fate una pausa, lasciate stare gli status su Facebook e prendetevi qualche minuto per scorrere i profili su LinkedIn. Complice la crisi galoppante, su questo social dedicato ai professionisti, i curriculum ormai sono sempre più accattivanti. Ci si mette in mostra per i recruiter di tutto il mondo ed è tutto un proliferare di problem setter, problem solver (ma chi sei, mr Wolf?!) e storyteller (cantastorie, narratore o imbonitore?).
Un esercito di ex sbarbatelli (compreso chi vi scrive, ovviamente) cresciuto guardando le serie tv americane, indossando Nike stringate e i 501 della Levi' s, facendo il verso ai manager della Grande Mela come Michael J. Fox e Gordon Gekko, pronti a tutto per sbarcare oltreoceano. O sotto la Madonnina. Come si riconoscono?
Gli yuppies degli Anni 80 avevano l' orologio sul polsino ma non è cambiato nulla. Anche oggi il successo è apparenza e si misura a partire dal gergo che testimonia l' appartenenza al branco. Soprattutto a Milano dove hanno persino chiamato un quartiere City Life ed è tutto uno skyline, una vera experience. Perché tutto in inglese suona meglio, anzi, è decisamente cool.
Del resto oggi ci si cura del brand, andando a caccia dei like degli influencer (dai libri ai ristoranti, senza remissione di peccato) con il terrore di venire giudicati out dai figli millennial, guardando i cookingshow e i talent solo per twittare, sperando di entrare in trending topic. Come se contasse davvero qualcosa. I neologismi ci braccano ad ogni angolo, basta alzare le antenne: chiamami adesso, in real time, ti aspetto in standby, stasera andiamo ad una business dinner, ma forse è too much, preferirei un light catering, un finger food, decisamente wellness oriented.
A Milano (soprattutto) fatturare è un mantra: lavoro full time senza un break sempre in pole position, ti faccio un check later, sorry questa settimana sono overwhelmed (impegnato) dobbiamo raggiungere il break-even e seguire la community day-by-day però domani lasciami stare, sono g.o. Game over for all. D' accordo le lingue sono importanti, ma la sensazione è che spesso si finisca per scimmiottare Guido Nicheli, il cummenda di Vacanze di Natale, ostaggio di un fake-english, (o chiamatelo weblish, l' inglese del web) che storpia le parole, cercando il giusto mood, parlando solo per hashtag.
Proprio come quei divorziati che improvvisamente mettono su jeans colorati, polacchine, prendono un cane e il gel nei capelli. Il cosiddetto dress code, il giusto outfit per fare matching su Tinder. Per questo poi all' estero nessuno ci capisce e finiamo per fare cricca con gli altri italian ad ogni latitudine.
Abbiamo scelto un approccio ilare, ma il problema esiste davvero, tanto che l' Accademia della Crusca pochi giorni fa ha lanciato l' allarme: il nostro italiano sta soccombendo agli inglesismi. Non ci resta che lanciare un sos, attendere la notifica push e cercare una exit strategy. Sperando che il sommo Dante possa perdonarci. Sì, sarebbe bello che alla fine ci fosse un happy ending.
guido nicheliguido nicheliguido nicheliguido nicheliguido nicheli
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