
DAGOREPORT – IL CAMALEONTISMO DELLA DUCETTA FUNZIONA IN CASA MA NON PAGA QUANDO METTE I BOCCOLI…
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per ''il Fatto Quotidiano''
Ultimo tango a Parigi, Novecento, Apocalypse Now. L’ultimo imperatore, Reds, L’uccello dalle piume di cristallo. Vittorio Storaro ha collocato negli scaffali tutti i ciak dei viaggi a cui ha partecipato tranne uno: “Quello de Il conformista di Bertolucci lo requisì Francis Ford Coppola. Venne a cena. Io non c’ero e convinse mia moglie ‘Mi sono fatto stampare la mia copia personale in 16 mm, non puoi negarmelo’. Lei non glielo negò e al di là del feticismo, per quello che ho vissuto con lui, va benissimo così”.
Con tre Oscar per la fotografia e il prossimo film di Woody Allen già pronto: “Ci scriviamo quasi tutti i giorni”, il figlio del proiezionista della Lux che vide il paradiso del cinema in calzoni corti: “Ero un po’ come il ragazzino del film di Tornatore, papà mi lasciava solo in cabina con qualche raccomandazione ‘se la fiammella della lampadina si scalda troppo, chiamami’” non ha smesso di cercare. “Ho sempre scavato dentro di me senza accontentarmi e continuo a farlo: se non evolvi, diventi la fotocopia di te stesso, se ti senti arrivato, sei finito. Come dice Alfonso Arau ‘se ti metti sul piedistallo è inevitabile che i piccioni ti caghino in testa’”. A giugno gli anni saranno 76: “E io mi ricordo ancora di quando vidi Chaplin per la prima volta”.
Al cinema?
Nel giardinetto di casa in una sera d’estate. Mio padre arrivò con un enorme marchingegno sul tettuccio della macchina e un barattolo di vernice: “Divertivi- disse a me a mio fratello, sporcatevi e poi pitturate quella parete”. Ubbidimmo. E poi, con il buio, vedemmo l’omino.
Ricorda il film?
Scoprii tempo dopo che era uno spezzone di City Lights. Quella sera alzai gli occhi oltre lo schermo improvvisato e vidi la gente affacciata ai balconi sotto una grande luna.
vittorio storaro francis ford coppola
Pensava di diventare quel che è diventato?
Fu un esame di ammissione alla Scuola media a cambiare il quadro. 5 in storia, 4 in italiano, 3 in geografia, 2 in matematica. Respinto.
Oggi la chiamano maestro.
Ieri ero il peggiore tra gli allievi. Dovetti ripiegare su una scuola tecnica e fu la mia fortuna. Sostanzialmente studiavo fotografia. E mi piaceva.
A casa erano contenti?
vittorio storaro e (a sinistra) bernardo bertolucci
Papà, un uomo che sapeva essere anche molto duro, proiettava le preoccupazioni economiche sui figli. Era stato chiaro: studiare non era una priorità. Avremmo dovuto lavorare presto perché in famiglia non avevamo una lira. A casa, per dire, c’era una sola stanza da letto e io dormivo in cucina ai piedi della branda di mio fratello.
Quindi cominciò a lavorare?
Da garzone in un negozio di fotografia per 3.000 lire alla settimana e il paradosso è che dovetti iniziare a lavorare per poter continuare a studiare. La mattina in aula, al Duca D’Aosta. Il pomeriggio a pulire bacinelle, a stampare, a ritoccare le foto dei morti.
Sente di essere stato più bravo o più fortunato?
Se non avessi avuto fortuna avrei potuto continuare a ritoccare le foto dei cari estinti per tutta la vita. Me ne resi conto e provai per due volte a entrare al Centro Sperimentale, la seconda a 18 anni, ma non avevo l’età. Il segretario si sorbì la mia storia dei miei sacrifici e ebbe un moto di compassione: “C’è la possibilità di una deroga. Ci provi, ma sappia che ci sono tre posti in palio su 500 domande e se dovesse arrivare a pari merito con qualcuno la escluderebbero”.
Lei ci provò.
A forza di scremare rimaniamo in 27. Arriva il giorno dell’esame. Il mio cognome inizia con la S e viene sorteggiata la lettera B. Mi interrogano sul crinale del pranzo. Stremati. Affamati. Con l’occhio sull’orologio. Non ce la facevano più. Lo capisco, entro, rispondo alla prima domanda e non mi fermo più. Tremavo perché ero sicuro che alla seconda avrei fatto scena muta.
Gliela fecero?
Mi cacciarono: “Storaro, lei ha studiato, abbiamo capito, basta, basta”. Vinco il bando e mi danno 30.000 lire al mese, una cifra enorme per l'epoca, solo per continuare a studiare.
Il primo grande successo della sua vita è Il conformista.
La scena del ballo tra Sandrelli e Trintignant, una scena in cui la luce dialogava con l’ombra, nasceva da un cortometraggio di 35 minuti che avevo fatto nel 1959 al Centro Sperimentale. L’attore era Marco Bellocchio.
Come a dire che non si dimentica niente?
Come a dire che una scuola non è formata solo dai professori, ma anche dagli allievi. Al centro, in quel primo anno, finite le lezioni restavamo a discutere e a sperimentare.
La primissima esperienza?
Come uditore su Le sorprese dell’amore di Luigi Comencini. Avevo bisogno di vedere come era fatto un set. Pulivo le cassette, portavo gli chassis, preparavo i provini nella camera oscura. Carlo Carlini, il direttore della fotografia mi disse: “Perché non rimani qui con noi per il prossimo film? Che torni a fare al Centro?”. Rifiutai. Dovevo migliorarmi. Finire il secondo anno di studi e prepararmi bene. Credo di averlo fatto.
Carlini la richiamò?
Subito. Mi fece conoscere Marco Scarpelli, un mito, uno che si metteva il sigaro in bocca e illuminava l’anima sua e quella di tutti i teatri di Cinecittà. Gli feci da assistente e poi incoraggiato dallo stesso Scarpelli ‘Vai tu che ne sai molto più di me’ passai alla macchina per la prima volta ne Il Mantenuto diretto da Tognazzi.
Poco dopo, nel 69, arrivò Franco Rossi per Giovinezza, giovinezza.
Per me Franco Rossi era quello che aveva lavorato in Smog con Ted McCord, l’uomo che aveva donato la fotografia, quella fotografia rivoluzionaria, a La Valle dell’Eden. Mi sembrava incredibile che volesse me, ma lui fu subito gentile. Mi chiamava ‘Vittorino’: “Amerei fare dei provini, legga la sceneggiatura. Vedrà che è interessante. Mi aiuti a trovare idee sul piano della visione, sul senso di trasformazione che vive l’Italia del 1935, sull’Odissea incombente.
novecento di bernardo bertolucci
Mi industrio, parliamo delle possibilità che il volto si veda in penombra per restituire il senso dell’identità in via di cambiamento dei giovani fascisti e Rossi sembra perfettamente d’accordo. Il giorno dopo, sul set, ferma le riprese e manda tutto all’aria: “Basta, non vedo niente, voglio che sia tutto chiaro, tutto illuminato!”. Rimango di merda e vado dall’elettricista: “Mettigli una padelletta di luce davanti al volto dell’attore e poi fai tu, domani non vengo”.
Si licenziò?
Si rivelò un uomo di spirito: “Non c’è nessun bisogno di andarsene Vittorino, lei faccia tutto quello che vuole, se c’è un momento in cui non ci capiamo e io ho bisogno di vedere un’altra luce in scena le strattono il braccio, senza fermare niente e nessuno”. Ho fatto tanti film importanti, Giovinezza, giovinezza è stato tra i più belli della mia vita. Sul set, a due giorni dalla fine delle riprese, piansi a dirotto. ‘Ti rendi conto - dissi all’aiuto regista Nello Vanin singhiozzando- “Tra poco quest’emozione non ci sarà più”. E lui: “Non puoi proseguire a suonare la stessa nota per tutta la vita”.
Lei ha suonato le più diverse.
Ho lavorato per comporre immagini che credo in fondo sia la funzione del cinema.
Alle sue spalle c’è una copia miniaturizzata di Caravaggio. Vocazione di San Matteo.
Ho studiato il quadro di un genio che con un solo segno cambia le arti figurative mondiali. La luce e l’ombra, il bianco e il nero, il passato e il futuro, l’umanità e la divinità. Prima di capire che in Vocazione di San Matteo il raggio di sole che entra dalla finestra non illumina assolutamente nulla c’è voluto tempo. Il tempo di imparare che, anche al cinema, le cose non sono mai come sembrano, ma come tu vuoi che siano rappresentate. O suggerite, come fa Bertolucci, un regista che anche grazie agli studi psicanalitici non mette mai in scena tutto ciò che è reale e concreto, ma lascia spazio all’elaborazione individuale di ognuno e alla parte onirica. Tutto è simbolico, Bernardo scrive con la macchina da presa.
E lei?
Io faccio lo stesso con la luce e con l’ombra. Delineo lo spazio, do un ritmo all’immagine. Ci siamo ispirati a vicenda io e Bernardo, anche per questo siamo andati d’accordo per 35 anni.
Che ricordi ha di Ultimo tango?
Una grande libertà d’azione. Brando costruì il personaggio giorno dopo giorno lavorando alla sceneggiatura con Bertolucci. Bernardo voleva che la macchina seguisse Marlon ovunque: “È sciolto, può andare dappertutto e lo stesso può fare Maria Schneider”. Praticamente braccavamo due animali in gabbia.
Quanto era diverso il Brando che incontrò sul set di Apocalypse Now?
Un altro uomo. Arrivò sul set a due terzi del film. Era irriconoscibile. Appesantito. Stanco. In un attimo rividi il fermo immagine di Paul in Ultimo tango. Non poteva essere la stessa persona. Rimasi scioccato. Parlammo in francese e poco dopo iniziarono i problemi tra lui e Francis.
Brando litigò con Coppola?
Non erano d’accordo sulla visione di Walter Kurtz, sul senso del personaggio, sulla sua fine. Non erano d’accordo su niente. Per Francis, Kurtz era la mela marcia che dice la verità e cioè che la guerra è un orrore. Io sapevo che Kurtz andava presentato quasi alla maniera del Tarzan di Burne Hogarth. Il meno realistico possibile. Quasi un fumetto.
Su quest’aspetto Coppola era d’accordo con lei?
Avevamo viaggiato per 27 ore fino all’Australia. Lì, in albergo, con Francis sdraiato per terra a
causa della scoliosi, avevamo discusso della visione simbolica di Kurtz. Prima di partire Coppola mi aveva messo in mano Cuore di tenebra di Conrad. Lo lessi per tutto il viaggio annotando idee e suggerimenti. Con Coppola, nonostante all’inizio non volessi fare il film, ero d’accordo su tutto.
Perché non voleva fare il film?
Non volevo mancare di rispetto a Gordon Willis, direttore della fotografia de Il Padrino, di Tutti gli uomini del presidente e di tantissimi film di Woody Allen. Francis mi rassicurava: “Non è il suo stagno, non è adatto, non ha nessuna intenzione di girare nella giungla”. Ma io chiesi un incontro con Willis perché volevo sentirmelo dire da lui. Quando accadde, mi calai in Apocalypse Now.
Fu dura?
L’avventura più pericolosa e magnifica della mia vita. La giungla australiana non ci convinse. C’erano pochi asiatici e così ci trasferimmo nelle Filippine. Francis voleva fare un film durissimo, ma rifiutava l’approccio documentarista poi inseguito da Oliver Stone. Ci voleva lo spettacolo. Ci volevano le ballerine e la perdizione.
Nella prima scena, dopo la cavalcata delle Valchirie, con il villaggio distrutto si sente una voce rassicurante: “Vi vogliamo bene, siamo qui per aiutarvi”. Il contrasto tra i bambini della scuola che fuggivano e chi aveva bombardato era molto più efficace della banale esposizione di una tesi. Ai tempi va ricordato, la visione americana del Vietnam si limitava alla propaganda di Berretti Verdi.
Prima ha detto direttore della fotografia, in realtà lei ha sempre rifiutato la definizione.
Non mi piaceva la parola direttore. Il cinema è come un’orchestra. È un’opera collettiva, non un’opera singola. Ci sono i solisti. Lo scenografo, il costumista, il montatore e però c’è un solo regista che li guida. Non posso fare come voglio: posso esprimere la mia creatività, la mia idea e le mie concezioni in un campo in cui so che ce ne sono altre e una persona sola che le unisce. Ho combattuto a lungo per far cambiare la dicitura ‘direttore della fotografia’ ai premi per il David di Donatello. Preferivo ‘autore della fotografia’. Alla fine mi hanno dato ragione.
Con Coppola, Beatty e Bertolucci lei ha vinto 3 Oscar.
Dopo il primo, a 40 anni, non uscii di casa per mesi. Ero svuotato. Era come se per capire dove stavo andando, dovessi prima sapere da dove venivo. Fermarsi fu utile.
Fu facile?
Per niente. Accettai anche un film in Francia, ma mentre tornavo a Roma capii che non avrei potuto farlo. “Perché sei triste?” mi chiese l’amico con cui viaggiavo. “Perché non ho avuto nessuna idea nuova, mi sono appoggiato su quelle che conoscevo già”. Per scuotersi serve una scossa. Anche inattesa. Sul set di Apocalypse, per esempio, Brando entrò nella parte quando non se lo aspettava nessuno.
Ce lo racconta?
Dovevamo girare una delle scene più difficili del film. Quella in cui si incontrano cacciatore e preda, Sheen e Brando e Marlon dà vita al suo storico monologo. Purtroppo Marlon era bloccato da giorni in un mutismo immobile e un po’ rancoroso. Coppola meditava di fermare le riprese. Lo trovai in cima a una torretta, sotto la pioggia, sdraiato e zuppo con la moglie a suo fianco. “Non ce la faccio più con le parole” disse.
“Ti prego, fammici parlare” risposi. Volevo tentare di spiegare a Marlon cosa avevo in mente. Francis acconsentì. “Io ti do solo un’indicazione con la luce- dissi a Brando-quando la vedi con la coda dell’occhio puoi iniziare a muoverti liberamente”.
Nacque una delle scene più importanti del cinema contemporaneo.
Facemmo le prove e dopo, al momento di girare vidi un altro Brando. Alto, non più ingobbito, totalmente rasato. Sembrava un gigante. Metteva paura. Andò in scena. E fu geniale.
Sono stati film letterari.
Era come ritrovare il Faulkner che Camillo Bazzoni mi consigliava di alternare a Pavese nelle letture giovanili.
Con Bertolucci siamo rimasti amici?
A Bernardo devo molto se non tutto. Con lui ho viaggiato e condiviso tutto. A un certo punto rischiammo di perderci. Per sua stessa ammissione si sentiva onnipotente e ogni onnipotenza crea delle corti più o meno spontanee. Io a corte non volevo stare e mi defilai. Con il tempo abbiamo discusso, ci siamo dati torto e ragione, abbiamo fatto pace e siamo tornati a lavorare insieme e a volerci molto bene perché Bertolucci è una persona di un’umanità incredibile.
Era anche colpa sua?
Non credo ma può darsi. Ho i miei difetti. Sono suscettibile, timido, anche molto permaloso.
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