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DAGOREPORT – SE C’È UNO SPIATO, C’È ANCHE UNO SPIONE: IL GOVERNO MELONI SMENTISCE DI AVER MESSO…
Marco Giusti per Dagospia
Adesso che Gian Luigi Rondi, decano dei critici italiani, a 94 anni se ne è andato, sapremo finalmente se era vera la perfida profezia che gli aveva annunciato tanti anni fa Pier Paolo Pasolini, “Sei così ipocrita che quando la tua ipocrisia ti avrà ucciso / sarai all’Inferno e ti crederai in Paradiso”. Cioè, lo saprà lui. E lo saprà magari anche Pasolini. Ammesso che si ritrovino nello stesso posto.
Il Paradiso, però, in questi ultimi anni, se l’era guadagnato con celebrazioni in vita degne di un santo: un documentario, mostrato a Venezia, totalmente agiografico che finiva con la dichiarazione che le cose che più lo avevano disturbato nei suoi tanti anni da direttore e presidente di festival, erano state le ingerenze politiche nella cultura. Nei festival altrui però.
Due libri per il centro Sperimentale, uno favoloso di lettere di registi famosi, che venne presentato al Festival di Roma giusto un anno fa e dette modo a Rondi, andreottiano di ferro, di dichiarare che aveva sempre votato a sinistra. Negli anni del PD di Renzi non si poteva dire niente di più democristiano. Due interviste di critici eccellenti come Natalia Aspesi e Paolo Mereghetti, su Repubblica e Corriere, totalmente dalla sua parte, dove non gli veniva rimproverato nulla di nulla. Insomma, Rondi, il Doge Nero, il critico più odiato dal cinema di sinistra, finiva per diventare il Doge Rosso, ex-partigiano e comunista combattente.
silvia koscina, gianluigi rondi, nino manfredi
Ora, Gian Luigi Rondi era un uomo di grande intelligenza e di estrema scaltrezza, ma per anni e anni, come molti altri critici famosi - penso a Tullio Kezich e a Lietta Tornabuoni che non erano certo democristiani - è stato un nemico culturale di chi amava un certo tipo di cinema che non fosse quello dei Bergman-Fellini-Lean-Chaplin.
gianluigi rondi con michelangelo antonioni
gian luigi rondi gina lollobrigida a venezia
Da direttore di festival, a Venezia, bocciò un capolavoro come Blue Velvet di David Lynch e penso che ne bocciò parecchi di interessanti. Non capì mai né il cinema di genere, né il cinema violento americano degli anni ’70, né le stravaganze che hanno costruito il cinema degli ultimi trent’anni. Detto questo, devo ammettere però che mi divertiva molto parlare di cinema con Rondi, avevo più affinità con lui, che per anni avevamo considerato il Diavolo Democristiano, che con Kezich e Tornabuoni, che ritenevo sicuramente meno aperti, o con lo spocchioso e ancora più ipocrita Fofi, che ha esercitato in questi anni un potere più sottile del suo. Mi bocciò la presenza di Alvaro Vitali in un’edizione del David di Donatello, io lo facevo da autore e dirigente per la Rai, e certo mettergli Alvaro era una provocazione, ma non voleva nemmeno Tiberio Murgia tra il pubblico, che imposi.
Odiava i caratteristi, ma riuscii a infilare perfino il barbuto Osiride Peverello come mangiafuoco in un’edizione e Cianfriglia e Torrisi come antichi romani. Eppure con Rondi, ripeto, era divertente parlare di cinema. Perché lo conosceva davvero, e spesso sostenevamo (ahimé per me) le stesse cose.
Non ho visto, per fortuna, la sua faccia tre anni fa ai David quando Paolino Ruffini osò profanare con una “topa magnifica” la festa alla sua adorata Sophia Loren, che prontamente rispose “non conosco questo idioma”. Paolino in realtà voleva scherzare. Diciamo che non venne capito. E venne scacciato dal Paradiso di Rai Uno. Credo che Rondi si offese profondamente, come si offese della conduzione di Piero Chiambretti nel David di inizio 2000, quando Carlo Freccero era direttore di Rai Due.
C’era Alberto Sordi che voleva un premio e Rondi si era stufato di inventarsi premi ogni anno per Sordi. Allora Carlo si inventò il premio per l’attore i cui film erano passati più volte in tv. Si inventò un numero a caso e lo disse a Sordi, che venne a ritirare questo assurdo premio.
Per ricompensa Carlo lo strinse così forte sul palco che tememmo il peggio per Sordi. Insomma, con Rondi si poteva scherzare, ma fino a un certo punto. Il suo presentatore ideale era Tullio Solenghi, garbato e pungente, ma mai offensivo. E la sua premiatrice ideale era Virna Lisi, bella e elegante. Tullio lo sapeva prendere. Ma il cinema italiano o, meglio, il cinema italiano da David di Donatello, non ha mai sopportato né Chiambretti, né Ruffini, né Solenghi, e nessun altro presentatore che gli si potesse proporre.
L’anno scorso, al David in edizione Sky, ho ritrovato lo stesso gelo del pubblico del “nostro” cinema anche di fronte all’arzillo Cattelan. E pure Cattelan finì per prendere in giro il vecchio Rondi dal palco per raccattare un applauso che non venne (la battuta, non finissima, riguardava gli interventi dei premiati, brevi, perché Rondi non è che avesse tutto questo tempo).
A tutto questo Rondi era superiore. Ne aveva viste tante. Ho visto assieme a lui nelle salette per la critica I mercenari 2 con Stallone Schwarzenegger. Sembrava uno di loro. E Les miserables, il musical. “Victor Hugo è un po’ invecchiato”, sussurrò. E Il lupo di Wall Street. Cadde ritornando dal bagno e lo aiutai a rialzarsi. Non l’ho mai considerato il padre della critica italiana, ma certo era ancora molto lucido, anche se non aveva amato il film. “Il vostro problema”, sosteneva Fofi parlando della mia generazione di critici, “è che non avete avuto padri o professori”. Per fortuna che non gli avevamo avuti. Meglio Figli di nessuno alla Matarazzo.
Ecco, quello che non aveva Rondi, era la prosopopea da maestro di sinistra alla Fofi. Ci si poteva parlare tranquillamente di cinema cinema senza scomodare Deleuze e Guattari. Alla fine, aveva ragione Bernardo Bertolucci, quando gli scrive, “tu sai che io ti ho sempre considerato (anche per esperienza personale) uno dei rari critici italiani che sanno leggere, capire, amare il cinema”. Credo che si possa essere tutti d’accordo su questo.
giulio andreotti informale
rondi fellini
gian luigi rondi (2)
gian luigi rondi
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