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Goffredo Fofi per "Vanity Fair"
Ma perché è così brutto il cinema italiano?
à una domanda che mi sento fare spesso da amici non cinematografari e perfino da molti di loro. Quel che si vede sugli schermi o negli onnivori festival in stile veneziano non è certamente granché, sia esso firmato da nomi illustri che da nomi incerti, da «autori» o da debuttanti.
Resterà qualcosa di quel che è stato mostrato a Venezia? Non credo, e soprattutto è facile prevedere che non resteranno (alcuni sono morti prima di nascere) i film italiani delle rassegne maggiori. La cui nuova linea è da tempo quella stessa che riguarda una parte consistente dell'umanità , di profittare delle disgrazie degli altri, le astuzie dell'«umanitario» trovando in letteratura e in cinema un'infinita schiera di piccoli e grandi parassiti.
Se si salva qualcosa è nel semi-documentario, e la ragione è molto semplice. Dopo trent'anni di regime berlusconiano e quasi un secolo di centralismo romano (dal tempo della fondazione di Cinecittà , nei primi anni Trenta, voluta dal regime per lo sviluppo di Roma e per il controllo dell'«arma più forte», per molto tempo il più influente tra i media), gli italiani non conoscono più l'Italia, nonostante le frastornanti chiacchiere Tv e denunce giornalistiche, che hanno avuto l'effetto di castrare ogni volontà di intervento e partecipazione.
Il centralismo rimane, e ha avuto il suo maggior puntello nella linea perseguita da una sinistra che, in questo campo, è stata perfettamente «continuista» (vedi Veltroni). Si è così consolidata una corporazione ristretta di facitori di film che ha privilegiato una fiction di stampo televisivo, mentre lo spazio del «cinema d'autore» si dilatava grazie all'Articolo 28, una commissione di cinematografari e parenti affidava somme ingenti ai progetti cartacei dei registi e lasciava da parte le figure dei produttori-mediatori mentre, grazie alle «scienze della comunicazione» e ad altri Dams, ai giovani cui non si offrivano più posti di lavoro decenti si dava l'illusione di poter essere tutti «creativi», e le lauree in cinema si moltiplicavano proprio mentre i giornali sostituivano ai critici i giornalisti, anche i più scarsi in questioni estetiche.
Se dunque è dal semi-documentario d'autore che si può sperare qualcosa, da quello non retorico, non opportunista, non «buonista» (Rohrwacher, Frammartino, Marcello e forse qualcun altro), dal cinema maggiore sono venute solo delusioni grandi e piccole, e una quantità di piccoli e grandi megalomani convinti di avere chissà cosa da dire, che hanno sciupato per megalomania tante buone occasioni, ultimo Sorrentino, e piccoli e grandi sfruttatori delle disgrazie altrui, come l'ultimo Crialese candidato all'Oscar.
C'è speranza nel cinema italiano? Cambierei la domanda: c'è speranza nella possibilità che la società italiana torni a esprimere qualcosa di buono e di radicato, un popolo in grado di capire e capirsi, di scegliere coscientemente il proprio avvenire? Francamente, sono molto pessimista, e lo sono anche perché mi pare che i cosiddetti intellettuali (educatori, giornalisti, saggisti, romanzieri, registi, preti...) non sono oggi assolutamente all'altezza dei compiti che dovrebbero assumersi. Per non parlare dei politici! E dunque, in ogni campo, tocca più che mai a minoranze molto intelligenti ed eticamente molto motivate fare più di quel che in altre epoche gli è toccato fare, per aiutarci a essere tutti meno stupidi, corrotti, ipocriti. Nel cinema e in ogni campo.
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