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Marco Vallora per "la Stampa"
Basta guardare in video Robert Hughes: nasone possente da bevitore spassionato lenzuolo ciancicato di rughe alla Auden che sono un manifesto anti-lifting chiassoso e ribaldo, come una risata ciclopica pronta a scrollare il mondo assopito dell'ipocrisia.
Indossa un impermeabile disfatto da investigatore in dismissione e cammina perplesso e ondeggiante, quasi un dubbio ironico e sarcastico personificato, sotto una faraonica statua da museo anatomica di Damien Hirst. Basta questa sua immagine a farci capre quanto abbiamo perduto, con la morte di Robert Hughes, a soli 74 anni, lunedì, in un ospedale di New York.
Più che un critico d'arte e storico della civiltà , o un etnologo, in missione dentro la patetica tribù dei «vernissagisti» di rito (che deglutiscono qualsiasi mistura incantatoria la «mafia» del Contemporaneo gli propini, convinti per di più, eroicamente, di collaborare alla marcia progressiva del Moderno) era soprattutto un ironista fulminante e acre. Che distruggeva ogni prosopopea fasulla, con il semplice richiamo animale d'una risata (anche scritta) che aveva la forza d'un detonatore fatale.
Si misuri (simbolicamente) nel museo di cui sopra la smisurata potenza (anche economica) di quella superflua scultura finto-sensazionalistica di Hirst, totem inutilmente scorticato, e la sua minuscola presenza in basso, di archeologo del presente. Ma è subito ovvio che a vincere sarà proprio quel suo sorrisino sornione e nauseato, come per un odorino sgradevole, da neonato che se l'è fatta sotto o fuori dal vaso della tradizione.
Ed è ben probabile che quando le pastigline di prozac di Hirst saranno disperse dallo scopettone dell'oblio, forse ci si ricorderà del libro più rivelatore di Hughes, quella Cultura del Piagnisteo , 1993, che ha segnato un'epoca, prontamente importato da Adelphi. In cui combatte (imparentato con il Flaubert di Bouvard e Pécuchet) i luoghi comuni del Pc, che non significa più, innocentemente, «trionfo del computer», ma sventuratamente «saga del politicamente corretto»: vera e propria malattia del nostro evo post-moderno («questo profilattico contro la cultura» scherzava, interpretando a suo modo Baudrillard).
Complaint , insieme lamento (come il Lamento di Portnoy di Roth e con altrettanto humour) ma anche morbo, infezione, questa miseranda festa di rivalsa del vittimismo sociale. Per cui (vedi l'esempio didattico del Whitney Museum) basta essere neri, perseguitati, omosessuali, magari anche un po' lesbici o transessuali, per essere già titolati come artisti e degni di ribalta. Non importa poi quali opere si realizzino.
Certo, sapeva detestare (ma anche adorare: basterebbe la sua Barcellona incantatrice , considerata sua seconda patria), era capace di disprezzare, e questo diventava per lui un discrimine-rasoio critico, se non un metodo: «Odio questi figli di buona donna che hanno le facce da tejere d'argento di Sotheby's, questo supermercato d'una pseudo religio dell'arte, che s'interseca fatalmente con l'ipocrisia sociale. Mentre io penso davvero che l'arte deve essere mistica, visionaria».
Per cui trovava molto più giovane l'ottantunenne Lucian Freud che non quell'ibernato di Jeff Koons, ed anche molto più sexy di quell'icona stantia di casalinga sciatta che è Tracey Emin. Migliore Frank Auerbach che non Alex Katz, «che si vende, certo, ma è proprio così necessario?».
Nato a Sydney in Australia (e all'arte del suo paese aveva dedicato ventottenne un regesto decisivo) ha preferito abitare a New York, nel Bronx, nonostante continuasse a chiamare i neri negri , «come si è sempre fatto» (i nomi per lui erano innocenti). Per decenni critico solforico di Time , che lo considerava il «più grande critico al mondo, ricco della stessa irriverenza di Kenneth Tynan a teatro, quello di Oh! Calcutta! .
Aveva «sfondato» anche in tv, con un programma iconoclasta, dedicato allo Shock del Nuovo , che era l'equivalente di certe performances musicali di Bernstein o di John Berger, sulla fotografia. Erede di un poliziotto irlandese, emigrato in Australia, aveva allontanato quel paese dalla sua vita (radiografato in un libro esemplare come La Riva Fatale ) dopo un incidente quasi mortale, che lo aveva piagato nel corpo e contrapposto agli uomini di legge, che lo avevano condannato (un ennesimo complaint).
Da quell'esperienza era uscito il saggio su Goya: «Ho visto la morte davanti a me, ero seduto al tavolo, come un bancario, non faceva nulla, ma ha aperto una gola enorme, sono entrato nel tunnel molle, era proprio come la bocca dell'inferno della pittura cristiana». Non è vero che scriveva come Zola o Ruskin, come ha sostenuto ieri il Guardian : aveva una scrittura veloce, succosa, muscolare.
«Non è un miracolo che si possa produrre tanto denaro con tanta scarsa abilità ?» ha detto di Hirst: «lo squalo più sopravvalutato al mondo». E questi ha reagito, pedante come un ragioniere. «Rembrandt, Velazquez, Goya, penso che tutti siano stati interessati agli aspetti commerciali della loro arte, io credo di agire come ognuno di loro agirebbe, se fosse in vita. Non voglio ascoltare altre cose dette da Robert Hughes. Probabilmente lui pianse quando morì la Regina Vittoria». Come a dire che era un pachiderma antidiluviano. Quando Hirst soccomberà nella sua formaldeide scaduta, la contro-modernità di Hughes rilucerà ancora.
robert hughesKOONS Pompino by Jeff Koons e Cicciolina Koons Cicciolina in ghiaccio Hirst e il suo teschio Lucien Freud La cultura del piagnisteo (Adelphi) di Robert HughesLibro di Hirst
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