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Simona Orlando per “Il Messaggero”
No Future, nessun futuro, era lo slogan del punk eppure quest’anno si festeggia il
quarantennale della sua nascita. E’ solo uno degli effetti indesiderati del fenomeno controculturale che divampò oltremanica nel 1976. L’anniversario cade il 26 novembre, data in cui uscì il primo singolo dei Sex Pistols "Anarchy in the UK", ma le celebrazioni si tengono per tutto il 2016.
Londra dedica retrospettive, concerti, rassegne di film, tutto finanziato da enti pubblici, avallato dal sindaco conservatore Boris Johnson e benedetto dalla Regina (gli eventi sul sito Punk London).
E’ paradossale che un movimento nato come furore anti-establishment sia sponsorizzato da chi doveva essere sabotato, lo è ancor di più il fatto che finora nessuno abbia tutelato i luoghi culto del punk, dal Roxy, il club delle esibizioni incendiarie, a King’s Road e Chelsea, ormai zone di shopping.
Successe anche con il quartiere di Soho e i posti-chiave della Swinging London anni ‘60, di cui non resta nulla. Diventare ingranaggio del sistema che si vuole scardinare, sembra essere il destino di ogni rivoluzione, ma questo non significa che non sia valsa la pena farla.
Il punk fu importante, dal punto di vista sociale, musicale ed estetico. Le sue origini sono autentiche, apparteneva alla classe operaia, esplodeva nell’anno di maggiore disoccupazione giovanile, si opponeva ad un’idea di società elitaria, espressione di ragazzi che desideravano più di quanto fosse stato deciso per loro.
La rivolta fu innanzitutto estetica: collari chiodati e catene come segni di oppressione, creste dritte, come per effetto dell’elettrochoc con cui si curano i dissidenti, pelle trafitta da spille a causare disgusto nei benpensanti o come atto di autolesionismo.
Invasero i territori proibiti, le strade del centro, con un guardaroba stracciato, ricucito, recuperato, simili a bricolage ambulanti. E’ anche grazie a loro se piercing e tatuaggi sono stati sdoganati, se lo stile si cerca in strada prima ancora che in passerella, se la categoria dei “giovani” che non contavano ha cambiato le carte in tavola e imposto il rispetto dell’individualità Erano la faccia della rabbia e della disillusione. Detestavano l’utopia e l’ipocrisia hippie.
Se il rock, soprattutto progressive, lanciava LP lunghi, il punk preferiva singoli brevissimi. Se il rock divagava, il punk ripeteva, se il primo dava sfoggio di tecnicismo, il punk invocava il diritto allo spontaneismo. Nemmeno le droghe avevano in comune: i cugini europei preferivano l’eroina alla marijuana, le misture sintetiche per rendersi inservibili. Lo avrebbe detto un ventennio dopo il Mark Renton di “Trainspotting”: «Ho scelto di non scegliere la vita. Le ragioni? Non ci sono. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?». Una frase che poteva uscire dalla bocca storta di Sid Vicious.
Derive a parte, il punk ha incoraggiato a prendere uno strumento e a gridare, puntando sul live. La musica doveva essere accessibile a tutti e infatti tutti suonavano, non importava se male, fiorivano gruppi e più che anarchia si praticava democrazia creativa: farsi vestiti da soli, disegnarsi i volantini, fondare fanzine e etichette discografiche come Rough Trade e Beggar’s Banquet, tuttora fra le migliori.
L’eredità che il punk ha lasciato è l’etica del fai-da-te, ripresa con la nascita di internet come azione diretta per sfuggire al controllo delle multinazionali, che poi hanno fagocitato di nuovo tutto.
I germi del punk erano americani (Stooges, Mc5, Ramones, New York Dolls e anche il mitico Cbgb's oggi è ristorante, 17 dollari a piatto) ma in Gran Bretagna la faccenda andò fuori controllo, cioè nel verso giusto. L’icona furono i Sex Pistols: carriera breve, poco più di due anni, e fama imperitura.
Erano davvero giovani disagiati ma lanciati dall’eccentrico e situazionista Malcolm McLaren che gestiva il negozio “Sex” insieme alla compagna Vivienne Westwood, oggi stilista i cui capi valgono una fortuna, studiata nelle accademie e venerata dalla élite. Fu subito merchandising, con le magliette di Johnny il Marcio “Odio i Pink Floyd”, “Destroy”, regine, svastiche e crocifissi rivoltati in una confusione di simboli.
La band finì nel tritacarne del successo, sulle carte di credito, le ristampe si vendono a prezzi assurdi, la casa in cui vissero, al 6 di Denmark Street, è appena stata eletta edificio di importanza storica. Operazione commerciale? Truffa? Probabile, però ogni falsario attiva uno scambio vero.
Con le pistole del sesso, autodistruttive e nichiliste, uscirono i più militanti Clash, Siouxie, che promosse la figura delle donne forti sul palco, e via alle varie declinazioni, post-punk, new wave, dai Joy Division allo stesso Kurt Cobain, sparsi in mille rivoli. C’è ancora chi fa il punk ma il genere non è di per sé irriverente.
Punk è un’attitudine ribelle e può riguardare ogni campo. Può esserlo stata la street art e il suo Banksy, finché non è stato mercificato, suo malgrado. Punk è l’azione, non tanto le sue conseguenze, ormai prevedibili in un mercato che mira a inglobare per disinnescare. Per sua natura, deve essere pericoloso: finché non sarà rispettabile, sarà credibile.
La scena punk degli anni d’oro è oggetto della mostra “Youth Codes” alla galleria Matèria di Roma fino al 28 aprile, con gli scatti di Karen Knorr e Olivier Richon. Il 23aprile i fan dei Ramones festeggeranno la nascita del punk (ognuno ha la sua datazione). Dal 4 al 7 agosto gruppi storici come Damned e Buzzcocks suonano al Rebellion Punk Rock Festival di Blackpool (200 euro il biglietto proletario).
Il 26 novembre, a Camden, Joe Corré, fondatore della linea di lingerie Agent Provocateur e figlio di McLaren e Westwood, per protesta darà fuoco alla sua collezione di cimeli punk (valore 7 milioni di euro) perché «La cultura alternativa non è roba da museo». La provocazione promozionale è vizio di famiglia.
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