DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Stefano Ciavatta per Dagospia
Compie gli anni Richard Benson, autoproclamatosi signore del Metallo, virtuoso della chitarra prog-rock, protagonista dell’etere underground capitolino, poi esploso come icona trash nazionale, il Benson postmoderno che rifaceva se stesso nel mainstream tv.
E poi definitivamente fenomeno da baraccone, volato via dal suo palmo di guru musicale come il palloncino rosso di Banksy, trasformato in tiro al piattello nelle sue esibizioni live, ostaggio del palinsesto deciso dall’algoritmo, usato anche a pezzi, urla e frasi per suonerie, jingle, sigle, gif, meme.
Una Galassia Benson di video e contenuti ormai incontrollabile, purtroppo per lui gratuita. Il Benson è finito poi nel tritacarne della fanbase dei nativi digitali a cui interessa solo il performer ciancicato delle sfuriate deliranti. Eppure il simulacro resta acceso.
Da ultimo, il twitch più famoso d’Italia, il Cerbero Podcast, lo cita come nume tutelare. Oggi Benson è un signore malandato di 66 anni, fagocitato da tempo dall’artrite e altri malanni, economicamente in disgrazia, una sofferta via crucis confessata nei tanti appelli impietosi.
richard benson in splendida forma
Il regalo di compleanno più bello è però la Benson-mania di ritorno. A provocarla è stata la presa in giro delle performance musicali di un Benson sovrappeso, patetico e maldestro, da parte del chitarrista youtuber Steve Terreberry. La sua ingenerosa reaction ha oltre 2mln di views, a cui se ne aggiungono altre, sempre straniere, contro “il peggior chitarrista del mondo”. Ma grazie a una truppa di fedelissimi dal 2018 sul tubo Richard Benson non è più solo un meme goliardico.
richard benson e barbarella (5)
Le Brigate Benson hanno condiviso le lezioni in dispense, le cassette di Heavy Agenda e i vhs dei Guitar Tricks per “le scale a plettraggio alternato velocissime”, i dischi come “Madre Tortura” e i concerti; Sir Daniel ha uplodato una guida alla discografia lacunosa tra opere reperibili incomplete, inedite e inventate (dello stesso Benson).
Il giornalista Christian Dalenz ha realizzato interviste a collaboratori, produttori, colleghi chitarristi, roadie. Idem la Falange Benson di Mark Mackay e Lorenzo Romaniello. Dalenz ha ripopolato anche il canale ufficiale di Benson con nuove canzoni dalla clinica di riabilitazione e il format “Nona Nota” dove torna il Benson cultore.
Faro di questo recupero filologico è il biopic amatoriale in sei puntate sulle origini sempre misteriose della famiglia, sulle decadi della carriera di Benson, sulle donne di Benson, a opera dello youtuber Francis Kingborn (nato nel ‘91 e cresciuto con il Benson junkie), che ha portato al repechage di ogni sorta di traccia musicale del sottobosco anni 70/80 in cerca di un’epopea discografica che però non esiste:
membro giovanissimo di una effimera formazione progressive dal disco rimasto nel cassetto, autore di una colonna sonora di un film mai distribuito, singoli in vinile introvabili, misterioso selezionatore di dischi alla radio per Arbore, turnista rock blues, session man, credits nelle sigle tv, produttore metallaro, quando il genere era ancora nelle catacombe. Tutto un materiale a cui si aggiungono i rumors sulla produzione di un documentario stile Netflix. Insomma per l’idolo scalcagnato e deriso è giunta l’ora della resurrezione, o almeno della tregua.
MARIO LUZZATTO FEGIZ E RICHARD BENSON
Ma chi è stato davvero Richard Benson? Sicuramente non l’ennesimo re di Roma. Piuttosto un culto casareccio con ambizioni esotiche, comunque laterale, una rockstar da liceali, poi una volta cresciuti è diventata una devozione distratta (“è vivo? è morto? che fine ha fatto?”).
Nella primavera del ‘90 potevi incontrarlo per strada, seduto ai tavolini dell’ex bar Java a Trionfale - il primo ufficio di Califano, quell’angolo popolarissimo dove finisce la Prati da bere e comincia una fauna smoke alla Paul Auster - un marcantonio con addosso il chiodo di pelle aperto sul petto glabro e scolpito, somaticamente androgino, parrucca sintetica e occhialoni, pantaloni aderenti e stivali, in posa con la schiena dritta mentre girava il cucchiaino dentro l’aranciata accanto a una straniera col pellicciotto corto.
Un omone inquietante, trasgressivamente autarchico, senza paracadute alla Achille Lauro, capace di eloquio gentile e di memoria discografica implacabile - di ogni musicista ricostruiva il vagare di disco in disco. Era l’autorevole musicologo che scriveva articoli su “Chitarre” e si pubblicizzava anche come produttore e discografico, ma soprattutto il recensore, lo stroncatore e il divulgatore televisivo per spettatori di Roma e provincia - non a caso Verdone nel celebre film ne teme il severo giudizio.
Ne “Il mucchio selvaggio della televisione locale italiana” di Dotto & Piccinini Benson è collocato nel girone dei “Faccioni, cialtroni, strafalcioni e definito il conduttore “lisergico” delle trasmissioni “Ottava nota” su TVA40 (ultra decennale e autoprodotta) e “Cocktail micidiale” su Televita.
La prima è stata l’oasi felice del Benson iniziatore, seguitissima dai ragazzi della Roma bene, i suoi sorcini, a cui dava ripetizioni a casa per 20 mila lire, che poi si riversavano alla ricerca di album di culto nei pochi negozi con i dischi di importazione come Revolver, Disfunzioni musicali, Millerecords, Black Market.
Benson rompeva dischi in diretta, era vittima di scherzi telefonici, viveva in uno stato di esaltazione musicale, anche nelle dispense che copiava dai tutorial americani: la scala del demonio, l’arpeggio allucinante, le chitarre prese a botte, le sue innocue poesie con la mitologia favolistica dei nani, dei gobelini, dei coboldi, la mandragola, il fico sacro, la betulla, i monologhi metafisici e stralunati sul Cristo Pinocchio e l’olio di croce.
Un teatrino kitsch per farti stupire tirando fuori vinili. Quando ritorna in auge la chitarra dei virtuosi solisti versante heavy metal, Steve Vai, Yngwie Malmsteen, Paul Gilbert, Vinnie Moore, tutti più giovani di lui, velocissimi, strabordanti, eccessivi, Benson si accredita come uno di loro. Il grande dibattito è se ci sia riuscito. La personalità era indiscussa, la tecnica meno. Cresciuto con altre corde musicali, ribadì comunque la nuova missione: “porto avanti il discorso del metallo”. Nel cambio di casacca era già compreso lo show: la cassetta delle lezioni anni 90 si intitolava “Per Corde e Grida!”.
Di sicuro Benson è stato un marziano a Roma: nel senso che un giorno è apparso dal nulla nell’urbe e a lungo ha mantenuto il mistero sulle proprie origini: la data di nascita, il luogo natio, il nome stesso. Flaiano e Pinelli fanno dire a Mastroianni che Roma “è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene”, e Benson ci si è trovato benissimo giocando a nascondino con le proprie origini inglesi, sviando, inventando, alludendo.
L’ipotesi che si chiamasse Riccardo Benzoni si perdonava subito al lato cazzaro del musicista, come gli aneddoti da mitomane sul giovane Marylin Manson, assiduo ai suoi concerti canadesi, su Joe Satriani che lo chiamava a casa ma lui non rispondeva mai, su David Bowie che aveva cantato in un suo disco prima di morire. Gli si voleva bene comunque perché Benson ricordava “Un americano a Roma”. Intanto però la vita quotidiana era romanissima come la casa dei genitori a via dei Funari al Ghetto, rustica, col camino.
Con il matrimonio, il secondo, con la storica compagna Ester nel 2013 a Roma, è stato costretto a esibire almeno un documento d’identità. Ha scelto il passaporto, l’ambito sacro graaal, svendendo il mistero di un tempo: il suo nome è Richard Philip Henry John Benson, cittadino inglese.
Seguendo la ricostruzione di FrancisKingborn Benson è nato a Woking nel Surrey il 10 marzo 1955 (ma il certificato girava già) da una coppia benestante tornata poi a Roma, Robert Benson, copy assunto alla Gillette, e Marcelle Giammonà, belga di origine italiana. Robert era nato a via Margutta, figlio di John Miles Bourne, pittore alle Belle Arti, e di Marietta Toppi, una modella di umili origini di Anticoli Corrado. Il nonno di Benson era il figlio minore di Samuel Herbert Benson, magnate della pubblicità nella Londra vittoriana. Con la presunta saga famigliare “The Benson” si apre un mondo tutto da esplorare.
Di Richard Benson, un incrocio fatto in casa tra Ozzy e Celentano, è rimasta ormai da troppo tempo solo una sagoma da rudere, neanche monumento. Ai concerti i pischelli lo hanno atteso per oltre un decennio per scorticarlo vivo tirandogli di tutto, insulti, provocazioni, bestemmie, sputi, panettoni, polli interi, yogurt, scopini da bagno, secchiate della qualsiasi.
All’Alpheus nel 2008 fu l’apocalisse, non riuscì nemmeno a suonare, gli arrivò anche una testa di porco come nei classici spagnoli. In seguito fu costretto a mettere una rete come i Blues Brothers. A Palestrina nel 2016 fuori tempo massimo perse la dignità. Questa pantomima disgustosa - per bisogno di denaro, e per le cure visti i continui problemi fisici - è andata avanti parecchio.
Ma anche questa è Roma, feroce con le rovine umane a cui chiede ancora di esibire a carissimo prezzo le medaglie opache con la stessa violenza da teppisti con cui un tempo si staccavano i nasi ai busti del Pincio e del Gianicolo. Nei primi 90 Benson era solo un eccentrico enigmatico un po’ sopra le righe e le prese in giro del pubblico non erano ancora un tormentone, nessuno lo aveva preso di punta.
richard benson e barbarella (3)
Al massimo chi ballava sudamericano nelle altre sale sentiva la chitarra ad altissimo volume e veniva a lamentarsi. Poi è iniziato il gioco di specchi: il pubblico che lo conosce con la tv spazzatura gli ha chiesto il bis dal vivo, dalla tribuna di “Cocktail Micidiale” si è abbandonato al suo istrionismo senza pudore forte della nuova popolarità. La confidenza di un tempo sul palco è diventata un pericoloso gioco di autocompiacimento, ha trovato i mostri in platea ed è scaduta nel sabba di successo. E’ così che Benson ha oltrepassato il Sacro Gra verso la fama e la rovina.
Il punto di svolta di tutto questo è stato il tentato suicidio del 2000, nell’epos bensoniano chiamato “l’incidente”, di cui tutti sanno e nessuno sa. Nel trafiletto in cronaca del “Corriere della Sera” si parla di un uomo “americano” ricoverato con una gamba fratturata dopo essere volato giù da Ponte Sisto.
Anni dopo ammise di essersi buttato di sotto per l’amore finito con la scultrice Ira Deltschaft. Dopo l’anno di dura convalescenza al primo concerto gli urlarono subito “a Richard, manco er Tevere t’ha voluto”. Non si è ripreso più. Nel 2015 il video del singolo “I Nani” è durato una mattinata in tutte le bacheche, una vittoria di Pirro ma non i 100 giorni di Napoleone. Poi altri appelli nell’emergenza economica e sanitaria.
Richard Benson è stato un personaggio struggente, profondamente buono, sensibile, solitario, riservato. Un personaggio tragico che si è messo dietro una maschera - c’era sempre un pezzo che ti mancava pensando a Benson - per poi scoppiare in mille pezzi. Ora è rimasto senza denti, con la chitarra classica in mano, seduto a suonare canzoni da una clinica. Via tutto il resto. Di nuovo soltanto Benson.
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