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Giuliano Aluffi per “la Repubblica”
Twitter e Facebook hanno il diritto di rovinare una vita? Se lo è chiesto il giornalista britannico Jon Ronson, autore nel 2014 del bestseller “Psicopatici al potere” (ed. Codice), nel nuovo saggio “So you’ve been publicly shamed” (ed. Picador). È uno sguardo impietoso su ciò che stiamo diventando, una visita all’irresistibile freak show delle più clamorose umiliazioni social.
Il caso più emblematico è quello di Justine Sacco. Torniamo al 20 dicembre 2013. Justine è all’aeroporto di Heathrow, scalo del suo viaggio da New York al Sudafrica, e manda un tweet con una battuta di pessimo gusto ai suoi pochi (170) follower su Twitter. « Sto andando in Africa. Spero di non prendere l’Aids. Scherzo: sono bianca! ». Per mezz’ora nessuno risponde.
Lei si imbarca e, per le undici ore del volo dorme. A Città del Capo riaccende lo smartphone: la prima cosa che vede è un sms da un compagno di scuola che non sentiva da anni: «Mi dispiace così tanto di quello che ti sta accadendo». Justine non capisce. E poi il suo telefono esplode di messaggi allarmati. «Chiamami subito», «Sei diventata il top trending topic mondiale su Twitter».
attacchi omofobi sul profilo twitter di amelie mauresmo 5
Mentre Justine dormiva tra le nuvole, il suo tweet con la battuta razzista era stato ritwittato da un numero sempre crescente di persone. Euforiche nell’attaccarla e chiedere la sua testa, ossia il licenziamento dall’agenzia di Pr dove la Sacco lavorava. Qualcuno coniò l’hashag #HasJustine-LandedYet per spingere chi si trovasse in aeroporto a Città del Capo a fotografare Justine e metterla su Twitter per godere in tempo reale della sua umiliazione pubblica…
Justine Sacco ha perso il lavoro e ha subito per mesi l’odio e il biasimo di milioni di persone. Che differenza c’è tra la gogna medioevale e quella dei social media?
«La gogna 2.0 è peggiore. Chi la subisce ha ancora meno controllo sulla situazione di chi veniva svergognato in piazza in passato: oggi il marchio dell’infamia rimane online per sempre. E poi oggi distruggiamo persone — anche estranee — alle volte per delle sciocchezze, delle gaffe. La velocità dei social media ci rende facile ridurre un individuo a una sua battuta infelice, ossia trasformarlo in un essere monodimensionale del quale diventiamo — in un istante — accusatori, giudici e boia».
Ma chi decide qual è il bersaglio su cui accanirsi?
«Noi. Tutti noi lo decidiamo. I social media ci mettono in una condizione da “Signore delle mosche”, dove la libertà può coincidere con l’atrocità. È la prima volta nella Storia che abbiamo su scala così ampia questo potere di nuocere al prossimo con tanta leggerezza ».
Quali pulsioni animano gli “ indignados” da social network?
«Paradossalmente queste brutalità scaturiscono dal desiderio di essere buoni. Vogliamo dare una lezione di umanità a qualcuno che si è comportato male. Però lo facciamo esercitando una crudeltà che si moltiplica di “condividi” in “condividi”».
Perché è così facile perdere il controllo di queste dinamiche?
selfie matteo renzi twitter poi cancellato 2
«Perché i social network sono macchine dove passiamo tutto il tempo ad approvarci a vicenda. Se qualcuno individua un bersaglio e lo attacca, i suoi contatti gli metteranno un “mi piace” e ciò incoraggerà a rincarare la dose. Diventiamo una valanga, dove però ognuno continua a sentirsi innocente ».
Nel libro lei racconta di Lindsey Stone, la donna americana che nel 2012 fu fotografata mentre faceva un gestaccio sulla tomba del Milite Ignoto al cimitero di Arlington. La Stone mise la foto sulla sua pagina Facebook…
«E la aggredirono tutti. Qualcuno mise su una pagina “Licenziate Lindsey Stone”, che in pochi giorni raccolse oltre 20.000 “mi piace”. La sua famiglia si trovò i giornalisti alla porta. Lei fu licenziata.
L’ho aiutata grazie a un esperto di reputazione online, che ha creato pagine web, blog e account Instagram, Tumblr e Linkedin per spingere in basso nei risultati di Google i riferimenti ad Arlington. Su tutte queste nuove pagine, Lindsey oggi parla quasi solo di gatti, di gelati e di musica».
Ossia di cose banali e rassicuranti...
«Il rischio è che i social network, facendoci sentire sempre sotto sorveglianza, limitino la libertà d’espressione inducendoci ad autocensurarci di default, non solo nei casi dove ciò sarebbe opportuno, come nei casi della Sacco o della Stone».
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