IL LIDO DEI MORTI DI FAME - CON “E’ STATO IL FIGLIO” DI CIPRI’, SBARCA ALLA MOSTRA IL REALISMO GROTTESCO - I PROTAGONISTI DEL CINEMA ITALIANO CHE ANCORA, PIU’ O MENO, FUNZIONA SONO BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI, DALLO ZEN A SCAMPIA, FIGLI DISOCCUPATI E BOLLETTE DA PAGARE - GLI “ANTIEROI” DI GIORDANA, LUCHETTI, MARRA, GARRONE, VICARI PENSANO SOLO AI SOLDI (POCHI, MALEDETTI E SUBITO) E NON FANNO PIU’ NEANCHE SESSO (E POI SI LAMENTANO CHE LE SALE SONO VUOTE)…

Malcom Pagani per Il Fatto Quotidiano

Giacinto Mazzarella è tra noi. L'avevamo lasciato con il ghigno di Nino Manfredi, l'accento pugliese e la curiosità al centro della tavola imbandita da Scola: "Ma come l'hai fatta ‘sta pasta Matì?" "E come l'ho fatta? melanzane fritte, uva passa, pomidori". Prima che una voce rivelasse il vero intento della riunione di famiglia: "Il veleno per i topi c'hanno messo, quattro buste, solamente nel piatto tuo" e molto dopo le onorevoli Angelina, i miracoli a Milano, gli accattoni e la scoperta di una suburbia non più prodotto della guerra, ma della quotidiana battaglia per sopravvivere.

Dietro la porta, con la vita difficile che non prova neanche più a mettersi la cravatta o a ribellarsi come il Silvio Magnozzi di Risi, ci sono i volti della statistica. I disoccupati e le esistenze in bilico. Quelli che rientrano sotto la voce "altri" e quando pagano le bollette, come in "È stato il figlio" di Ciprì, trasformano l'incombenza in ordine secco da dare al figlio.

Unica forma di comunicazione in un silenzio perenne di sentimenti dove chi avverte l'isolamento e sogna la fuga è considerato scemo o "frocio" come nella Livorno di Virzì: "Bastava un congiuntivo di troppo ed eri bollato per sempre come finocchio". Brutti e sporchi. Più incattiviti che cattivi. Più abbrutiti che disposti a seguire la virtù. Disperati senza averne la consapevolezza.

Il cinema italiano già in viaggio di ritorno verso le tematiche di Rosi (con Vicari, "Diaz" e da tempo con Marco Tullio Giordana) torna a occuparsi di loro. Illumina gli anfratti, recupera i microcosmi nascosti nei palazzoni con vista autostrada ("La nostra vita", Daniele Luchetti), affronta l'universo carcerario che si fa rapporto umano ("Il Gemello" di Marra, gli ultimi Taviani), li mette in commedia favolistica dal dolore insostenibile ("Reality", Garrone, premiato a Cannes), mostra come di fronte al barlume di un improvviso arricchimento (fama televisiva, soldi, mutamento di prospettiva) si sfaldi anche la parvenza della famiglia, proprio a sud, dove epica e retorica, sul tema, si fondono da sempre.

Più realismo grottesco che sociologia, più scorrettezza che riflessione seriosa in ogni caso, perché come insegna Lancaster Dodd, Philippe Seymour Hoffman, protagonista del sontuoso "The Master" presentato a Venezia: "La base della vita è ridere". Così nel vederci dietro la lente delle nostre miserie, nel riconoscerci in un carattere che meglio di chiunque altro, aveva disegnato Alberto Sordi, nello scorgere i moderni mostri, con gli eterni difetti di quelli di Dino Risi, ci allontaniamo dagli annoiati quarantenni garantiti e dai relativi film due camere e cucina che tanto disgustavano Moretti, per riavvicinarci a ciò che da Scampia allo Zen, alle istituzioni sembra terra straniera.

Lo facciamo con riso amaro. Monicelliano. Disveliamo l'odio che pulsa nelle gabbie familiari, i cessi sporchi di piscio e le perfidie dei parenti serpenti che il vecchio Mario, da maestro, sapeva raccontare: "E basta con tutti quei bocconotti" dice la madre alla figlia in una periferia di Sulmona: "Smettila, mi vieni su con un culo che fa provincia".
È un ribaltamento di prospettiva che mette in luce la definitiva annessione della periferia alla città, trascina al centro della scena i sottoproletari alla ricerca del colpo che stravolga l'orizzonte e rimanda alla mente i tanti passi più lunghi della gamba che ai poveri, al cinema, riescono soltanto in base a esigenze di sceneggiatura.

Così i Nicola Ciraulo (l'eccezionale, grevissimo portuale Toni Servillo di "È stato il figlio" di Ciprì, all'inseguimento ossessivo di una Mercedes ottenuta con l'indennizzo ricevuto per la morte della figlia, nella Palermo dei '70) : "Mi sono scassato la minchia di lavorare solo io, ho un figlio di 20 anni che non combina un cazzo dalla mattina alla sera", gli stracciaroli di Comencini (Alberto Sordi) disposti persino a rinnegare la religione e i buoni consigli pur di battere Bette Davis a Scopone: "Ah prete, io te rispetto, te bacio la mano, ma ora fatti li cazzi tui" e i pescivendoli di Garrone, alla fine, si trovano morti, sconfitti o in preda alla follia.

Sognano di sposarsi in carrozza, ma si ritrovano sempre un passo prima del punto di partenza. Che si comportino bene o male. Che calpestino la legge o la rispettino fino alle estreme conseguenze, senza sorrisi consolatori come Giulio, l'equilibrista da 1.200 euro al mese dell'opera di Ivan De Matteo con Mastandrea. Sa che non lo ascolteranno e a un certo punto, smette di lottare. Si chiude in macchina, alla pari di un diseredato di Sergio Citti.

Senza neanche un modello ossessivo di riferimento, un'illusione simile al GF anelato dall'Aniello Arena di Garrone, un amore di contrabbando, una speranza. Cucce dove il sesso è assente, sconosciuto o viene chiesto da ceffi motorizzati su strade sterrate come l'inconscio.

In "Brutti, sporchi e cattivi", recita da chance anche un viaggio in Vespa: "Ah Romolè, ma ndò me stai a porta?", "eddai famo ‘na cosetta alla sverta" "Nun è aria", "Ma vaffanculo, la faccia da mignotta ce l'hai, er fisico pure, perché non vuoi sta all'altezza delle situazione dico io?". Negli eredi diretti, domina la disillusione. Obiettivo i soldi. Pochi, maledetti e subito. Si ride per non piangere, ma se il domani non esiste, perché pensare di baciarsi?

 

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