
DAGOREPORT - DELIRIO DI RUMORS E DI COLPI DI SCENA PER LA CONQUISTA DEL LEONE D’ORO DI GENERALI –…
Guido Vitiello per “Il Sole 24 Ore” – Da Il Foglio del lunedì
Un po’ di scienza allontana da Dio, molta riconduce a lui. Pare che l’abbia detto Louis Pasteur, ma non ci metto la mano sul fuoco perché non sono riuscito a rintracciare la fonte. E proprio questa prudenza, questa circospezione, questa pavidità filologica mi colloca infallibilmente nel vasto gregge dei Citazionisti Mediocri.
Lo siamo un po’ tutti, noi che di tanto in tanto agghindiamo i nostri discorsi con qualche bella formula presa a prestito qua e là. Ma sopra le nostre teste, nell’aria purissima, volteggiano i superuomini della citazione, i Citazionisti Sublimi, quelli che hanno compreso che un po’ di citazioni allontanano dall’Arte, ma raffiche di citazioni sparate più o meno a caso riconducono trionfalmente ad essa.
Anzi, costituiscono una forma estetica a sé, quella che il poeta Giovanni Raboni battezzò «la nobile arte di citare a vanvera», per la quale si dovrebbe istituire uno speciale premio annuale: le Virgolette d’Oro. Sul podio, come vedremo, finirebbero per lo più giornalisti. Ma facciamo un po’ d’ordine. Il Citazionista Mediocre vive di complessi e di inibizioni sociali. Si nasconde dietro le frasi altrui come ai tempi delle zuffe a scuola si faceva scudo dietro ai bicipiti del compagno di classe più forzuto.
Ha bisogno di fare ogni giorno un po’ di name dropping erudito, ma col contagocce, quel tanto che basta per dare a intendere a tutti che ha frequentato un buon liceo. Spende le parole degli autori famosi come fiches sul tavolo verde del salone a cui vuol essere ammesso, e lo fa con parsimonia, non sia mai dovesse perder tutto in una sola giocata. Il Citazionista Sublime, il fuoriclasse della nobile arte di citare a vanvera, non ha di queste remore servili.
Ha carpito il mistero di quella che un altro poeta, Edoardo Sanguineti, chiamava la «onnipervasiva citazionalità dell’esistere», e ci si diverte come un matto. Anzi, ostenta lo stesso piglio noncurante e affabulante del Conte Mascetti con la sua supercazzola (non per caso, un aristocratico decaduto). Volete un esempio dal mondo della canzone? Citazionista Mediocre è stato il pur grande Fabrizio De André, che nelle note di copertina dei suoi ultimi dischi metteva addirittura i riferimenti bibliografici a piè di pagina, come un qualsiasi laureando.
Citazionista Sublime per eccellenza è Franco Battiato, perché lo shivaismo tantrico di stile dionisiaco e i gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi e le gesta erotiche di squaw Pelle-di-Luna e non credo di dover aggiungere altro. In effetti, la reazione dell’ascoltatore medio alle sciarade di Battiato può servire da metro per distinguere Citazionisti Mediocri e Citazionisti Sublimi. Propongo perciò di applicare un test molto semplice, che chiamerò «test Palombella Rossa».
Ricordate la scena del film in cui Nanni Moretti, a bordo piscina, inveisce contro l’intervistatrice che lo sommerge di cliché e frasi fatte? «Come parlaaa! Come parlaaa! Le parole sono importantiii!». Ecco, se avete una reazione spazientita di questo tipo siete probabilmente in presenza di un Citazionista Mediocre, goffo e urticante.
Il Citazionista Sublime suscita invece una reazione di tutt’altra natura, ben rappresentata in una seconda scena di Palombella Rossa: quella in cui Moretti, dirigente comunista ospite di una tribuna politica in tv, comincia a scandire la frase «questo sentimento popolare… » e di colpo, come posseduto sciamanicamente, si ritrova a cantare, e a stonare, tutta E ti vengo a cercare di Battiato – le meccaniche divine, il rapimento mistico e sensuale, l’Uno al di sopra del bene e del male, l’immagine divina.
franco battiato e pino massara fetus
È la migliore definizione che so dare: il Citazionista Sublime è quello che spinge la nobile arte di citare a vanvera fino al punto in cui, oltrepassato l’invisibile muro del suono della supercazzola erudita, scatena nel lettore il desiderio selvaggio di cantare le sue parole su musica di Battiato, di roteare come un derviscio, di mettersi un candelabro in testa al suono di cavigliere del kathakali. Si diceva che i supereroi del Citazionismo Sublime si esercitano per lo più sui giornali.
Questo per esempio è Roberto Cotroneo che recensisce La grande bellezza. Sottoponiamolo al «test Palombella Rossa». A suo dire, il film di Paolo Sorrentino «è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustave Le Bon.
Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni…».
Ditemi, allora: in che punto esatto avete perso il centro di gravità permanente, dov’è che ha cominciato a girare tutto intorno alla stanza? Per me l’estasi citazionista è giunta dopo la mitragliata Servillo-Girard-Le Bon, un attore napoletano, uno studioso francese del sacrificio umano e un positivista ottocentesco – l’uno che non c’entra un fico secco con l’altro – ed è stato bellissimo perdersi in quest’incantesimo, tanto che quando poi sono arrivati gli alchimisti ero già rapito al terzo cielo, e cantavo il resto dell’articolo su un arrangiamento elettronico stile La voce del padrone.
Capita però che il Citazionista Sublime cada dal suo rapimento mistico e sensuale e raggiunga la schiera di noialtri Citazionisti Mediocri. Qui, per esempio, Cotroneo scrive sul Pasolini di Abel Ferrara, ricordando anzitutto che l’eroe eponimo del film è «come la Sibilla di Cuma che apre il poema più importante del Novecento, quella Terra desolata del poeta Eliot dei nomi illustri ci ha portato vicini a quel grande fuoco mistico a cospetto del quale i bignami dei mortali non sono che paglia.
Vestale di quel fuoco mistico è Barbara Spinelli. A lei spetta il podio della Citazionista Sublime, a lei le Virgolette d’Oro per i secoli a venire, anzi si farebbe prima a intitolarle direttamente il riconoscimento: il Premio Barbara Spinelli. Lei sola, infatti, sa esser sublime anche quando cita da mediocre.
Quando, per esempio, rimanda il lettore a Simone Weil, La pesanteur et la grâce, ma gli suggerisce anche, per approfondire, Simone Weil, L’ombra e la grazia, salvo che si tratta dello stesso identico libro. O quando, per commentare i fantomatici misteri del «patto del Nazareno», tira in ballo il saggio sulla fiaba della povera Cristina Campo; la quale Campo, che in vita fu cristianissima, a sentir parlare di patto del Nazareno avrà pensato senz’altro alla «nuova ed eterna alleanza» di Gesù di Nazareth; ma dopo aver capito di essere stata trascinata col raggiro postumo in un editorialino su Berlusconi avrà tirato in cielo tante di quelle bestemmie da beccarsi mezzo secolo in più di Purgatorio per cattiva condotta.
Ma qualunque antologia del Citazionismo Sublime non può che avere al centro l’articolo che Barbara Spinelli dedicò anni fa proprio a Eugenio Scalfari. Uscì sulla Stampa con il titolo «Scalfari e il folletto scettico », e nella nobile arte di citare a vanvera corrisponde grosso modo al Finnegans Wake di Joyce. Io lo conservo nello scaffale tra l’Ulysses e i Cantos di Pound.
Impossibile capirlo, figuriamoci sintetizzarlo o tradurlo in uno degli idiomi finora conosciuti; basterà dire che nel giro di poche righe, per arrivare a concludere che Eugenio è un Lachphilosoph, ossia un «filosofo ridente», Spinelli riusciva a evocare Hannah Arendt, il Größenwahnsinn o folie de grandeur, le Erinni, Socrate, Hölderlin («Nel blu adorabile... »), il «sorriso dell’acrobata» di Rilke nella Quinta Elegia, il Gargantua di Rabelais, le favole di Grimm, El Desdichado di Gérard de Nerval, Proust, la litote secentesca, il malin génie, Descartes, Meister Eckhart (sermone In hoc apparuit caritas Dei), la pietà di Enea, Nietzsche, Montaigne, Pascal, Thomas Bernhard. Correte a cercarlo in rete, ma attenti: se siete novizi, è prudente leggerlo a piccoli brani e sotto la rigida supervisione di un maestro spirituale. Tre righe bastano a farvi sentire un beato stordimento da droga leggera.
Dopo qualche altra frase, diciamo all’altezza di Rabelais e dei Grimm, potrebbe apparirvi il vostro spirito guida in forma di iguana parlante. Arrivati a Eckhart, attraverserete stati di beatitudine che neppure Eckhart avrebbe saputo descrivere. Ed è a quel punto che avrete la visione beatifica: Manlio Sgalambro sulla traversa della porta, che agita le chiavi del Paradiso. Perché un po’ di citazionismo allontana da Dio, ma molto e a vanvera riconduce a lui.
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