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Andy Warhol?
"Un uomo normale e molto religioso. Niente a che vedere con un tossicodipendente o uno stravagante come l'hanno dipinto. E perseguitato dal fisco". Parola di Peter Brandt, presidente della The Brant Foundation e per 45 anni amico e collezionista di Warhol.
"La nostra amicizia inizio nel '68, dopo che gli avevano sparato, come a John Kennedy. Lui venne a sapere da Leo Castelli che c'era un ragazzo che collezionava i suoi lavori e volle conoscermi".
E dunque?
"Dopo quell'attentato non lavorò per cinque anni, era sconvolto. Diventammo grandi amici. Giravamo film insieme e venimmo in Italia per partecipare al Festival del Cinema di Roma: non vincemmo".
Amava il cinema?
"Sì, le grandi epopee del cinema. Era nato povero, suo padre era un minatore di Pittsburg, e lui si innamorò di cinema, immagini. Fece un film sull'Empire tate Building e, nel '72, girò a Parigi con il giovane Karl Lagerfeld prima che diventasse uno stilista, quando era un designer".
Com'era Andy?
"Una persona meravigliosa ma del tutto ordinaria, niente a che vedere con un tossico. Ma di grandissimo talento. In genere un grande artista fa 10 o 20 opere che restano nella storia. Lui ne avrà fatte un centinaio".
Quale preferiva?
"Andy preferiva la Gioconda ripetuta trenta volte ("Thirty are better than one") e anche le "Twelve Electric Chairs": la sedia era di un suo amico designer e mostrava che una grande democrazia aveva bisogno di una sedia. E poi..."
Poi?
"Beh... il caso clamoroso fu il ritratti di Richard Nixon. Lui lo fece ma in realtà parteggiava per il suo avversario McGovern. Anzi, vendette delle stampe dell'opera per finanziare la campagna di McGovern. Nixon lo venne a sapere e s'infuriò. E , per punirlo, gli inviò gli ispettori delle tasse, che lo misero su una lista nera. Devo dire che gli accertamenti fiscali continuarono per tutta la vita: non riuscì mai più a toglierseli di torno".
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