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DAGOREPORT – A CHE PUNTO È L’ACCORDO SULLE RICCHE RISORSE MINERARIE UCRAINE TRA TRUMP E ZELENSKY? IN…
Francesco Chiamulera per “il Fatto Quotidiano”
‘’La satira sull’Islam? Non ne ho mai fatta e tanto più, ora, confesso che non la farei più. Perché sono pavido e codardo”. Dove la trovi, in tempi in cui va di moda la spacconeria telematica, il petto gonfiato, il “noi e loro” esibito come una medaglia al valore, una sincerità così woodyalleniana e disarmante come quella che tira fuori Dario Vergassola? Per un uomo la cui comicità è cazzeggio, a ritmo di mitragliatrice - di battute, in un libro, ne ha raccolte 1139 -, l’onestà è tutto.
Sono onesti, e sconclusionati, e dolci, i protagonisti del suo primo racconto, La ballata delle acciughe (Electa): Lucio, e Albè, e Giulianone, e Gigi, e i fratelli Chiappa, animali della provincia assonnata spezzina, il cui centro gravitazionale permanente è il bar Pavone, un rifugio, una sorta di ultima spiaggia prima di un mondo grigio e competitivo.
E nel binomio bar-cazzeggio (veri topoi vergassoliani) si consumano le giornate, la quotidiana presa per i fondelli reciproca, condita di bonomia e innocua goliardia, per evitare che chiunque, in qualsiasi situazione, si prenda troppo sul serio. Sotto lo sguardo sardonico (è il caso di dirlo) di un barattolo di acciughe. Il bar, per Vergassola, è l’antidoto alla solitudine di un figlio unico, che da Zelig a Quelli che il calcio a Parla con me ha abituato gli italiani a ridere del paradosso e a ricordarsi, in un colpo solo, della gioia e della saudade della vita, tutte insieme.
Com’è una giornata di Dario Vergassola?
Se non sono in giro a cazzeggiare e a fare il miracolato raccontando dei miei libri in televisione, sono a casa, a La Spezia. Nel periodo invernale, che è più cupo - le città di mare d’inverno sono proprio tristi - mi alzo decisamente tardi, perché ormai ho preso il giro notturno e sto come un coglionazzo davanti alla televisione fino alle tre, alle quattro di mattina. Mi alzo tardi, faccio colazione solo con la frutta, non prendo ormai neppure più il caffè, e poi non fumo, non mi drogo: insomma, sono un uomo dello spettacolo molto anomalo. Sono persino sposato da trent’anni con la stessa moglie, c’è qualcosa che non quadra.
E poi?
Porto il cane a fare un bel giretto, lo porto al molo, passo dalla libreria e guardo che novità ci sono, vado a fare laspesa al supermercato. Torno a casa, cazzeggio, uso internet il minimo indispensabile. E poi, che altro... Ah, ultimamente sto facendo una trasmissione su Radio Capital con Vittorio Zucconi, RadioDario.
Nell’ultima puntata avevi una voce da malato...
Sì, ho detto: mi scuso se ho il raffreddore ma come sapete sono allergico alla vita.
Per curarsi c’è sempre il bar.
Appunto. Poi faccio un salto al bar. Non c’è più il mio, ma ce n’è un altro. Ci vado e ritrovo tutti i miei compagni di elementari, medie e superiori impegnati nella lotta per sopravvivere ai tentacoli delle slot-machine.
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Il bar della tua infanzia, il Bar Pavone, è chiuso.
Sì, purtroppo. Era il mio bar. Era piccolissimo. Con lui nel quartiere ce n’erano almeno altri sei o sette, di bar. Tutti provvisti di pista da bocce, biliardo: posti dove ti facevano anche da mangiare. E la gente stava lì, raccolta, in questa specie di famiglia parallela, di centro di igiene mentale omeopatico, un luogo sicuro. Uscivi dal lavoro e andavi lì, raccontavi, brigavi, sentivi se gli Ufo erano atterrati oppure no, e ognuno sparava la sua. Il tutto con gente che ti conosceva da sempre, quindi avevi poco da bluffare. Una specie di psicanalista, ma senza parcella: il paradiso.
Una volta hai detto: “Non sono un sex symbol, ma faccio fatica a farlo capire alle mie fan”. Quante donne hai avuto nella tua vita, prima di sposarti?
Molte, ma sono un sex symbol ipocondriaco: ci vado vicino con tante, poi però non faccio niente, perché mi prende l’ansia. Ora sto con Paola, che è unica. Ma quando ero più piccolo, coi miei tre capelli in testa e la chitarrina, qualche tentativo è pure riuscito.
Tua moglie cosa prova a sentirsi dire tutto il giorno che sei una pippa a letto? Quando poi ci andate, a letto, si fa delle risate o smette di ridere?
No, non ride neanche più, perché la storia è ormai chiusa. È come uno a cui racconti una storia ma sa già come va a finire. Una precisazione: da solo sono una mezza pippa, con lei a letto sono una pippa completa.
A proposito. Hai detto: “I farmaci contro l’impotenza possono ridurre l’udito. Se poi ci aggiungi che per quello che ci faccio io diventi pure cieco...”
Dico solo che sono contrario all’uso del preservativo perché mi fa sudare la mano.
Marco Travaglio ha scritto nell’introduzione a un tuo libro: “Vergassola mi dà l’impressione che le battute esistano già in natura, e che basti afferrarle”. Come nasce una battuta?
Non mi calo nella parte, ci sono già dentro, totalmente. Come i Masai, in Africa, che corrono tutto il giorno avanti e indietro: io ho la mia velocità di testa, è quella lì, non si può cambiare, e mi porta a fare delle battute senza a volte capire nemmeno quello che sto facendo. Me ne accorgo dopo, a posteriori.
Sì, ma il tuo è un lavoro. Una cosa è raccontare qualche barzelletta, un’altra sfornarne a getto continuo. Non hai chi ti dà una mano?
Sì, certo. Non sono contro le collaborazioni. Anzi, ho una pigrizia talmente forte che manderei qualcuno al posto mio, se potessi.
È sempre stato così?
All’inizio, a Zelig, scrivevo da solo, poi ho visto che tutti avevano chi li aiutava. Io ho Marco Melloni, Dario Tiano, Giovanni Tamborrino, che sono molto bravi.
Le battute che hai raccolto in Panta Rai quindi le avete anche pensate insieme.
È così. Prendi RadioDario: per quindici battute che dico in trasmissione, Marco me ne manderà, che so, almeno quaranta. A volte erano già mie, ma non me ne ero accorto.
Ti capita che ti riferiscano una battuta e che non ti ricordi di averla fatta tu stesso?
Continuamente. Le prime volte a Milano, da giovincello, ero un operaio, uno statale, un provincialotto spezzino. Milano per me era come andare nell’iperspazio, un altro mondo. Al tavolo del ristorante vidi Craxi. Non resistetti. Quando andai a pagare cominciai a gridare: al ladro, al ladro, sapete mica chi mi ha rubato il portafogli? La cosa ebbe un’eco. Mi chiamarono i giorni successivi: ‘sei mica te che hai sfottuto Craxi?’. Sono fatto così. Per amore di battuta potrei perdere il lavoro, le amicizie. Poi, come si è visto in Francia, per amore di battuta si possono perdere cose ancora più importanti. Come la vita.
Charb, Cabu, Wolinski, Tignous. Conoscevi qualcuno dei vignettisti che sono morti a Parigi per mano dei fondamentalisti islamici?
Wolinski lo leggevo spesso su Linus. Sono firme che conoscevo bene. Solo che in Italia, a parte il ‘Male’, non si è mai fatto niente di simile. Di umorismo sul potere, da noi, ce n’è sempre stato poco. Ora la satira è morta e defunta, dopo i diktat berlusconiani. Non c’è niente da fare: si è spenta una vena. Chi ancora ci prova lo fa all’acqua di rose, e a volte nemmeno troppo bene.
Chi fa satira a fumetti in Italia?
C’è Vauro, che quando ha fatto la vignetta con le casse da morto dopo il terremoto all’Aquila ha fatto scoppiare un casino. Ma io sono favorevole a che si scherzi su tutto, anche in modo pesante. Purché lo scherzo abbia un senso, ovviamente.
Islam, cristianesimo, ebraismo, potere politico. I disegnatori di Charlie Hebdo non risparmiavano nessuno.
La satira sull’Islam non l’ho mai fatta e tanto più, ora, non la farei, perché sono pavido e codardo. E per me la comicità è cazzeggio. Però io e altri non ci siamo mai tirati indietro quando si è trattato di fare battute su Berlusconi, pagandone un prezzo molto alto, anche economicamente: io sono stato sbattuto fuori da un programma, ad esempio. Anche Parla con me della Dandini alla fine è stato chiuso. Ho avuto la gloria di essere stato persino nominato dal Cavaliere, anche se quando si parla dell’‘editto’ si citano solo Santoro, Luttazzi e Biagi.
Sì, anche se tra gli attentatori sanguinari e qualche politico autoritario c’è una bella differenza. Il problema dell’Italia è la censura o l’autocensura?
A volte sei più realista del re. Ci sono dei capi, nei programmi televisivi, che anticipano il potere: con Berlusconi erano terrorizzati. Il danno è multiplo: per far vedere che non tagliano solo la tua battuta sul potente di turno, cominciano a tagliarne venti o trenta, a caso. Col risultato che hanno annacquato tutto.
A proposito di Berlusconi. Gli hai dedicato un tuo precedente libro di battute: “a Silvio, ci manchi!”. Con Renzi è meglio o peggio?
Ero ospite di Alle falde del Kilimangiaro. Sono entrato in trasmissione e ho detto: scusate, arrivo ora da Courmayeur, i Falcon erano tutti pieni, non ho trovato un buco su un aereo, son dovuto venire in treno. Nessuno ha detto niente, per carità. Però quando Virginia Raffaele ha fatto l’imitazione di Maria Elena Boschi mostrandola un po’ torda, che sbatte gli occhioni, si sono alzati tutti gli scudi.
Si disse che era una battuta sessista.
È il guaio del politicamente corretto. Un nemico totale della satira. È Wolinski quello che ha detto: ‘si deve migliorare la condizione della donna: ingrandite le cucine, abbassate i lavelli e isolate meglio i manici delle pentole’, no? Il guaio di chi fa le battute è che sono quasi sempre ‘contro’ qualcuno. Ma se faccio una battuta sui gay, non significa che abbia niente contro i gay. Se avessi un fratello gay in casa, gliela farei in faccia.
È lecito scherzare sui morti?
Franca Valeri la signorina snob diventa dottoressa honoris causa
Io sono figlio unico. Mia madre è morta giovane, mentre faceva le pulizie in un ufficio, di un attacco di asma. È stato un dramma, che sogno ancora dopo trent’anni. Un mese dopo la sua scomparsa ero al bar. Con gli amici ci è venuto in mente di andare al Cerreto, una stazione sciistica. Siccome eravamo tutti poveri, qualcuno fa: perché non portiamo anche le mamme, che non hanno mai visto la neve?
Un tempismo perfetto.
Ci fu il gelo. Il ragazzo che l’aveva detto non si ricordava di quel che mi era appena capitato. Io dissi: non vengo. Partirono delle occhiatacce feroci contro di lui. Poi aggiunsi: non posso, non ho il portapacchi sulla macchina.
Wow.
Cosa voglio dire con questo? Che per me quel che è successo a mia madre non sia stata una cosa terribile, per la quale piango ancora? No. È solo che per me scherzare vuol dire farlo a trecentosessantagradi.
Charlie Champlin ballava fuori dai pub
Commenta i seguenti talenti comici: Charlie Chaplin.
Chaplin, Groucho Marx, Totò sono i grandi classici. In un certo senso li ho riscoperti adesso, più avanti nella vita. Da giovanissimo seguivo quelli più a me contemporanei: Stefano Benni, innanzitutto. Leggevo molto Pennac. Poi mi accorsi che mi sarebbe piaciuto fare quello che avevo visto fare a David Riondino e Paolo Rossi a La Spezia trent’anni fa: salire su un palco e parlare delle proprie cose personali. Quella era la roba che mi piaceva”.
Roberto Benigni.
Era uno di quelli che mi piacevano tanto, ma quando ho capito il suo metodo sono rimasto un po’ deluso. Per esempio, andai a sentirlo a Venezia. Uno spettacolo meraviglioso, esordì dicendo: veneziani! Cosa sarebbe il mondo senza Venezia! Il Friuli crollerebbe addosso all’Emilia! Ti faceva sentire parte di una storia. Poi venne a La Spezia. E anche lì: liguri! cosa faremmo senza la Liguria! Il Piemonte scivolerebbe in mare!
Non ti piacque che fosse standardizzato?
Cosa vuoi. Noi comici siamo un po’ zoccole. Ma non solo noi. Quando vai a sentire De Gregori che canta Alice, ti sembra che stia parlando a te. Poi lo senti in un altro concerto, ripetere gli stessi versi a mille altre persone. E ci resti un po’ male.
Franca Valeri.
Una grande attrice, con un’inventiva assoluta. E un’attualità mostruosa.
Daniele Luttazzi.
Sopra le righe. Il potere lo ha fatto fuori. Ma una cosa non mi piaceva del suo programma: voleva fare il Letterman italiano, però invitava la gente che stava simpatica a lui, e parlava male di terzi. Ma è più bello se le cose le dici in faccia, no?
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