NUOVE MODE – MA TUTTO ‘STO ”HASHTAG ACTIVISM” SERVE A QUALCOSA O SOLTANTO A FARCI SENTIRE CON LA COSCIENZA A POSTO? – LA SECONDA CHE HAI DETTO: NON SI CAMBIA IL MONDO CON UN “LIKE”

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  1. “OCCUPY”

Fabio Chiusi per La Repubblica

 

NEYMAR HASHTAG SIAMO TUTTI SCIMMIE NEYMAR HASHTAG SIAMO TUTTI SCIMMIE

Dopo che il diciottenne Mike Brown, disarmato e con le mani alzate, è stato ucciso dai colpi esplosi dalla polizia di Ferguson, nei sobborghi di St. Louis, la comunità afro-americana si è riversata nelle strade in protesta. Ma è sui social media che ha echeggiato una domanda: «Se mi sparassero, che immagini userebbero i media per ritrarmi?».

 

Quando la vittima è di colore, questa la denuncia, c’è una tendenza a perpetuare gli stereotipi che la vorrebbero in qualche modo affiliata ai modi espressivi delle gang. Così migliaia di utenti hanno utilizzato su Twitter l’hashtag #IfTheyGunnedMeDown per contrastare foto che parrebbero confermare i pregiudizi e altre che invece parlano di vite comuni, anche nei loro momenti più gioiosi.

Salma Hayek cannes bring back our girls Salma Hayek cannes bring back our girls

 

È proprio questa funzione di critica dal basso delle distorsioni mediatiche, ha scritto Time , a fornire l’esempio più cristallino del potere dell’ hashtag activism. Ossia dell’attivismo da hashtag, le espressioni precedute da un cancelletto che sui social network identificano

i temi di discussione. Erede dello slacktivism ( l’attivismo per pigri) degli anni 90 e del clicktivism ( l’attivismo da click) dei primi anni Duemila, si accompagna sempre più spesso al racconto in tempo reale della quotidianità.

 

Alcuni esempi recenti? Un selfie con un piatto di hummus per «promuovere il dialogo pacifico sui social media» tra israeliani e palestinesi (#Hummuselfie). Un autoscatto e un bel sorriso su Twitter per opporsi all’idea del vicepremier turco, Bülent Arinç, che «una donna deve essere casta» e per questo «non dovrebbe ridere in pubblico» (#Direnkahkaha). Ma anche la chiamata alla mobilitazione per liberare le oltre 200 studentesse nigeriane rapite dai terroristi di Boko Haram (#BringBackOurGirls) e il diffondersi dello sdegno per il massacro di Santa Barbara da parte di Elliot Rodger (#YesAllWomen), il cui istinto omicida era nutrito esplicitamente da una intollerabile misoginia: «Non so perché voi donne non siete attratte da me, ma vi punirò tutte per questo».

Leona Lewis Bring Back Our Girls Leona Lewis Bring Back Our Girls

 

L’espressione compare per la prima volta nel celebre Urban Dictionary nei giorni di #StopKony, la campagna lanciata da “Invisibile Children” per catturare il guerrigliero e criminale ugandese Joseph Kony che ha prodotto 2,4 milioni di tweet nel solo marzo 2012. L’“hashtag activism”, si legge, «è quella forma di attivismo che si verifica quando si “fa qualcosa” per un problema twittando o postando link su Facebook, senza alcun intento di fare realmente alcunché».

 

Il presupposto è caustico: «Niente altro che un gesto privo di significato per sentirsi a posto con la coscienza e poter dire di “aver fatto qualcosa” per una qualunque causa di tendenza a cui si stia facendo finta di interessarsi». E in effetti, se il metro è la campagna contro Kony, i risultati ottenuti sono scarsissimi: il criminale è ancora a piede libero. Anche Boko Haram ha proseguito nei rapimenti nonostante i cinguettii di Michelle Obama e Hillary Clinton: il 30 giugno vengono rapite altre 60 ragazze e 30 ragazzi; altre 8 erano state rapite a maggio. E l’attenzione internazionale sta già svanendo, scrive il Wall Street Journal, così come l’impegno statunitense.

Alex Chung Bring Back Our Girls Alex Chung Bring Back Our Girls

 

Il razzismo, poi, non è certo scomparso dal calcio italiano grazie alle banane mangiate da Matteo Renzi e Cesare Prandelli (#SiamoTuttiScimmie), come dimostra l’elezione di Carlo Tavecchio a presidente Figc nonostante le proteste anche sui social per un’inaccettabile uscita proprio sugli stranieri «mangia banane ». Quanto a Gaza, un recente studio del data scientist Gilad Lotan ha mostrato che su Twitter i palestinesi parlano con palestinesi e con chi la pensa come loro, e gli israeliani l’opposto. Altro che dialogo.

 

E, del resto, quando le campagne sono come #StandingWithIDF (sto con l’esercito di Israele) non potrebbe essere altrimenti: difficile possa giovare alla causa della pace mostrare seni e fondoschiena di giovani israeliane su una pagina Facebook da 32 mila iscritti il cui motto è «la bellezza delle donne israeliane vi attende, qui a casa», e che promette che ogni mese un soldato sarà selezionato per un «trattamento speciale».

 

Salma Hayek cannes bring back our girls Salma Hayek cannes bring back our girls

A distanza di due anni, insomma, la domanda formulata da David Carr sul New York Times resta attuale: «Se “ci piace” qualcosa, significa che ci interessa davvero?». La risposta divide gli esperti. Per Ben Scott, di Slate, mobilitarsi a questo modo costituisce «un ponte tra potere e cultura popolare». Anzi, aggiunge la fondatrice di HashtagFemminism.com, Tara Conley: gli hashtag sono «artefatti visivi attraverso i quali possiamo guardare davvero la cultura nel suo farsi».

 

Ed è indubbio che almeno un risultato si osservi ripetutamente: grazie ai meccanismi della viralità, le campagne sui social media riescono a imporre l’agenda ai media e all’opinione pubblica, dando voce a soggetti che spesso non ne hanno — minoranze etniche e donne — mettendoli per la prima volta alla cabina di regia delle dinamiche dell’attenzione in un mondo che ne ha fatto il bene più scarso, e dunque prezioso. Il problema è capire che farsene, una volta ottenuta, nello scarso tempo concesso dall’era iperconnessa prima di passare alla prossima ragione per cui indignarsi e cliccare.

 

RAFFAELLA CARRA BANANA RAFFAELLA CARRA BANANA

Per ora tra i principali risultati ottenuti c’è #StandWithPP, il primo esempio di una campagna incentrata su una causa specifica e al contempo di massa che nel 2012, tramite Twitter e Facebook, ha convinto la Susan G. Komen Foundation a tornare sui suoi passi e non tagliare, come aveva deciso, il finanziamento annuale di 680 mila dollari a Planned Parenthood, un’organizzazione per la tutela della salute sessuale e riproduttiva: sono bastati 100 mila tweet in tre giorni. Ancora, aver dato un contributo decisivo alla riapertura del caso del diciassettenne di colore Trayvon Martin, ucciso solo perché «aveva un atteggiamento sospetto» (indossava un cappuccio) da un vigilante poi assolto, George Zimmerman.

 

Poco? Sicuramente. Non è da sottovalutare, tuttavia, che partecipare all’attivismo da social media non esclude altre forme di partecipazione più strutturate, offline, scrive Brooke Foucault Wells, docente alla Northwestern. Anzi, «la ricerca empirica suggerisce che è vero l’opposto». Senza contare che non c’è una distinzione netta tra disimpegno fuori e dentro la rete, dato che firmare una petizione cartacea non comporta molta fatica aggiuntiva — né produce maggiori risultati — rispetto a inviare un tweet.

 

SUOR CRISTINA CON LA BANANA SUOR CRISTINA CON LA BANANA

Il punto è che svariati casi dimostrano come la banalizzazione che si produce generi disinformazione che viaggia in tempo reale e si diffonde a macchia d’olio (su tutti, vale l’esempio di #GazaUnderAttack, in cui molte delle terribili immagini di morte diffuse non risalivano affatto alla crisi in corso), quando non addirittura istigazione alla giustizia popolare. È anche il caso di un retweet del celebre regista Spike Lee, che aveva invitato i suoi 240 mila follower a recarsi al presunto indirizzo della famiglia di Zimmerman — solo per poi scoprire che l’abitazione ospitava una ignara coppia di settantenni. Lee ha patteggiato una somma in denaro, ma gli effetti avrebbero potuto essere devastanti.

 

2. “SE PER CAMBIARE IL MONDO BASTA UN “LIKE” SULLO SMARTPHONE”

Guia Soncini per La Repubblica

 

DAVID SASSOLI MANGIA LA BANANADAVID SASSOLI MANGIA LA BANANA

Nulla piace di più agli adulti con smartphone che fare la rivoluzione senza uscire dal pigiama. Superata l’adolescenza, età in cui li si usa per obiettivi concreti quali chiedere che Justin Bieber faccia un concerto dalle nostre parti, i social network vengono restituiti alla loro più irresistibile vocazione: quella di lotta e di divano. Un “mi piace” di qua, un cancelletto di là, e prima ancora del caffè già ci sentiamo politicamente impegnati: prendendoci il solo disturbo di un hashtag, che riuscirà là dove i mediatori di pace hanno fallito; o di un like che, si sa, è partecipazione.

 

Ci vorrebbe una cover di La libertà di Gaber fatta da Checco Zalone, per questi tempi in cui la contrapposizione a «star sopra un albero» non è certo manifestare, o affacciarsi in una sezione di partito (esistono ancora o sono state convertite in fan page?), o intraprendere qualsivoglia attività politica che preveda l’alzarsi dal divano.

 

renzi e prandelli con la bananarenzi e prandelli con la banana

Verrà la rivoluzione, e avrà il nostro like. Nei casi di massimo impegno civile, si può addirittura cliccare «parteciperà all’evento ». Non serve tu ci vada davvero, naturalmente, e fanno molta tenerezza quelli che creano l’evento su Facebook, ricevono centinaia di adesioni, preparano numero consono di pizzette, e poi non si presenta nessuno. Nessuna delusione è più bruciante di quella dell’adulto che, nel 2014, scopre che fare clic è come dire «Mi raccomando, vediamoci » a qualcuno che incontri per caso: non è che poi davvero vi telefonerete e vi vedrete, si dice così, tanto per.

 

È colpa nostra, tuttavia. Di noi che almeno una volta abbiamo, per spiegare quant’era imperdibile il personaggio che stavamo intervistando, scritto che aveva tot follower su Twitter. Di noi che abbiamo illuso i più fragili che una cosa scritta su Facebook venisse rilanciata sui giornali perché più rilevante di una detta al bar sotto casa. La delusione del cittadino moderno che voleva cambiare il mondo e misurava la propria capacità di farlo attraverso i “mi piace” e i retweet è sintetizzata da una di cui neppure ci ricordavamo, Michelle Bonev: «Milioni di persone hanno visto i post degli appelli e dell’evento su Facebook e Twitter; migliaia hanno apprezzato condividendo e commentando, ma soltanto 4 persone hanno fatto qualcosa di concreto. Mi rifiuto di accettare che soltanto a 4 persone interessi il destino di chi sta morendo ».

PIERLUIGI BATTISTA CON LA BANANA PIERLUIGI BATTISTA CON LA BANANA

 

Povera Michelle. Sembra quegli editori che contano le copie invendute dopo aver commissionato un libro a qualcuno con la solida motivazione «Ha tanti like su Facebook ». O quei programmi che l’Auditel svela come visti solo dai parenti degli autori, autori che non si capacitano dell’insuccesso: la sera prima erano trending topic su Twitter! Non ho capito come Michelle intendesse cambiare il mondo — probabilmente non l’ha capito neanche lei — ma non importa: importa solo la lezione che se ne trae: bacheche piene, urne vuote.

 

Se sei Rihanna e scrivi #FreePalestine, non fermerai il conflitto (in compenso attirerai un sacco di polemiche: impari da Madonna, signorina Rihanna, e dai suoi hashtag, pacifisti sì ma senza alienare fette di mercato, #CeaseFire e #PeaceInTheMiddleEast). Se sei Harrison Ford o Sylvester Stallone e ti fai fotografare col tuo bravo #BringBackOurGirls, otterrai un risultato. Non quello di liberare le ragazze, figuriamoci: quello di far girare di più la tua foto da Cannes. Un hashtag non serve alla pace nel mondo, ma ravviva la rassegna stampa di attori in declino. Certo, però, se sei Michelle Obama, forse è il caso di mollare quel cancelletto e bussare alla porta di chi può risolvere il problema: il tizio con cui sei sposata.

EDDY MARTENS CON LA BANANA EDDY MARTENS CON LA BANANA PIERLUIGI PARDO E I GIORNALISTI DI SPORT MEDIASET CON LA BANANA PIERLUIGI PARDO E I GIORNALISTI DI SPORT MEDIASET CON LA BANANA TABACCI MANGIA LA BANANATABACCI MANGIA LA BANANAROBERTO CARLOS CON BANANA ROBERTO CARLOS CON BANANA