1- IL PASSATO CHE VERRÀ, SI PORTERÀ IL SUO “PERVESTITO”: AVANTI PAPAM RATZINGER! 2- IL DIVINO QUIRINO CONTI FA UN SALTO A SAN PIETRO, IN BASILICA, PER ASSISTERVI AL CANTO DEL TE DEUM E SI ILLUMINA DI INCENSO: PARTITI (STILISTICAMENTE) DA UN PETTO DI POLLO, QUELLO DI BERLUSCONI, FINITI CON L’INGOBBITA POSTURA DI MONTI, PER RENDERSI DAVVERO CONTO DEL PUNTO A CUI SI È ORMAI ARRIVATI NON CI RESTA CHE IL PAPA 3- GRAN CERIMONIALE OTTOCENTESCO. E QUINDI UN PONTEFICE FINALMENTE TORNATO IN TRONO E NON PIÙ IN CATTEDRA, IMMERSO IN UN BALUGINIO D’ORO RILEVATO DA RICAMI PREZIOSISSIMI, DALLA TESTA AI PIEDI. SIMILE A UN IDOLO, IMBOZZOLATO NEL SUO INATTINGIBILE E SPESSO RIVESTIMENTO MITIZZANTE. SVETTANTE NEL LUCORE DELLA MITRIA 4- PURCHÉ LO SPETTACOLO CONTINUI, E IL PUBBLICO PAGANTE (L’8 PER MILLE) TORNI ALLO SHOW

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Quirino Conti per Dagospia

"Voi siete qui!" In tal modo, con un vistoso asterisco su una mappa, si segnala quanto ci si è spinti in avanti e come ci si è mossi all'interno di un'intricata boscaglia e lungo un oscuro percorso; dove si è arrivati. Così da non perdersi, indicando il cammino più agevole e una direzione certa. Ma soprattutto, come da lì in poi si procederà: in modo da regolarsi. Ed è anche quel che si fa a ogni inizio d'anno: mettendo sul tavolo tutto ciò che è capitato, così da poterlo interpretare - da aruspici, come fossero, quei fatti, sanguinolenti visceri sacrificali.

In quest'ultima occasione, però, l'analisi appariva da subito particolarmente facilitata: partendo (stilisticamente) da un petto di pollo, quello di Berlusconi, per finire con l'ingobbita postura di Monti. Dunque, dalle scatenate, ridanciane quindicine d'inizio anno alle monastiche, silenti atmosfere da sala capitolare dell'attuale governo. Insomma, da Toulouse-Lautrec e i suoi bordelli, all'Angelus di Millet. Con uno scarto formale tanto ardito che, a ripensarci, alcune facce (e stature) sembrano quasi finite oltre il reale: depositate ormai in un polveroso mondo di mezzo, dove a decine si accumulano come incubi.

Quest'anno all'esame sarebbe stato tuttavia essenziale un ulteriore tassello di rara efficacia evocativa; giacché molto più di un sintomo: di fatto una prognosi vera e propria. Soprattutto se ci si rammentava quanto era sfuggito di bocca a uno dei più resistenti direttori di telegiornale durante una fase d'interregno governativo: quando, con la massima tranquillità, lo si era sentito affermare che, in simili circostanze, lui era certo di non sbagliare orientando l'ago della sua politica sugli umori vaticani.

Pertanto, per rendersi davvero conto del punto a cui si è ormai arrivati, sarebbe bastato - naturalmente sempre nella prospettiva dei segni e delle forme - un salto a San Pietro, in basilica, il pomeriggio dell'ultimo giorno dell'anno. Per assistervi alla celebrazione dei primi vespri e al canto del rituale Te Deum di ringraziamento.

La visione - e il sonoro - era infatti da togliere il fiato! E così esemplificativa da rendere pleonastica ogni ulteriore analisi. Come si fosse precipitati, tra il 1807 e il 1820, dentro uno di quei dipinti a firma Ingres che a Parigi e a Washington raccontano ancora nel dettaglio la pompa di quella corte pontificia.

Dunque visione, quella dello scorso 31 dicembre, che avrebbe di certo mandato in solluchero persino l'anima inacidita di monsignor Lefebvre; ma pure (e chissà mai perché!?) di ogni rappresentante di quella superstite aristocrazia nera (e reazionaria) che, come profetizzato da Fellini in Roma, non si è mai rassegnata all'asciutta sobrietà imposta dal Concilio.

Ma quella sera, in San Pietro, di conciliare c'era in realtà ben poco: anzi, nulla. E quel caparbio percorso a ritroso, iniziato già da qualche decennio, finalmente appariva completato, in ogni dettaglio. Cosicché la restaurazione - monarchica - lì, in quel momento, sembrava del tutto compiuta.

Cercando dunque di farsi strada tra costrutti reazionari di così trito vecchiume, in una marea di segni, si potevano notare racconti formali letteralmente da cerimoniale ottocentesco. E quindi un pontefice finalmente tornato in trono e non più in cattedra (a buon intenditor...), immerso in un baluginio d'oro rilevato da ricami preziosissimi, dalla testa ai piedi. Tanto che persino la chiusura del piviale era stata ricondotta a uno di quei giganteschi fermagli-gioiello (detti razionali, e di antica tradizione accadica) d'oro e gemme. Simile a un idolo, imbozzolato nel suo inattingibile e spesso rivestimento mitizzante. Svettante nel lucore della mitria.

Ai lati, mesti e compunti cerimonieri in paonazzo e cotta orlata da alti e ricchi merletti (già banditi a suo tempo dal Concilio) lo assistevano sistemandogli addosso, come fossero coltri, le pesanti orlature del suo ammanto folto di racemi e ricco di rilucenti volute. Quindi, un diacono e un suddiacono perfettamente abbinati al sontuoso paramento pontificale; assieme a numerosissimi chierici anch'essi in cotta.

Due (chissà mai perché due, dal momento che il rituale non ne prevede che uno; fatta eccezione per una brutta ‘Tosca' di Bussotti), due dunque, in veste di turiferari, con turiboli d'oro (o dorati) spargevano all'intorno preziose nubi odorose. Un altro chierico accompagnava l'arrivo del Santissimo con un ombrellino (non se ne vedevano da decenni) in perfetto stile Hailé Selassié: un po' Babilonia (Nabucco), un po'Antico Egitto (il celebre trionfo dell'Aida), un po' Ben Hur; ma anche il ballo Beistegui a Venezia.

Spostatosi poi il pontefice con gran movimento di accoliti ai piedi dell'altare, di fronte a lui inginocchiato fu posto uno splendente e ricchissimo faldistorio (dal tedesco faltstuhl, "sedia pieghevole", o dal franco), così da poggiarvi le mani congiunte. Contemporaneamente, i due cerimonieri gli andavano in soccorso ricoprendo con cura quell'aggeggio con i lembi anteriori del piviale, così da far splendere ancor più l'oro e riducendo papa Ratzinger a un bizzarro tutt'uno con quel prezioso sedile d'origine lontanissima.

Quindi, su quel triste rigurgito di passato, al momento della benedizione eucaristica, musica e campanelli (banditi entrambi a loro tempo perché distraenti, teatrali e impropri). Il tutto in un linguaggio (latino dall'inizio alla fine) ermetico ed escludente: senza varchi né possibilità di ammissione oltre quel popolo di "eunuchi per il Regno".

Dunque, solo latino: dall'arrivo del pontefice al congedo. Per una cerimonia che con ogni probabilità non doveva essere comprensibile che dal Cielo, e da qualche decrepito addetto di curia. Come se quel che si andava dicendo non dovesse superare la soglia del reale, dell'utile: restando nel misterico e nell'iniziatico umbratile, raccolto forse solo dall'estatica ipersensibilità eccitata di monsignori di particolare eleganza.

Pertanto, un rituale oscuramente estetizzante, iperemotivo, come a Hohenschwangau. O in una delirante liturgia wagneriana a Bayreuth. Mentre il pubblico - di certo non più una comunità di fedeli - era costretto a decifrare su un libretto, come all'opera, quel che invece avrebbe potuto ascoltare con le proprie orecchie; magari traendone maggior vantaggio.

In un mare di compiaciutissimi e deferenti vecchi celibi che, similmente alla corte dell'imperatore a Pechino, distinti per rango dal colore, erano travestiti ora da cardinali, ora da arcivescovi, da vescovi, monsignori, giù giù fino al semplice clero. Purché lo spettacolo continui, e il pubblico pagante (l'8 per mille) torni allo show. Musicalmente sollecitato da un coro maschile (adulti e bambini), come da tradizione; e da un complessino di ottoni, tanto bavarese.

Ma a questo punto, dopo un simile sfoggio di effetti e teatralità, una così spericolata dissipazione di sons et lumières e di ogni altro genere di fulgore e d'intemperanza emotiva, come uscendo da un terribile sogno, davvero non ci si può non chiedere chi sia il crudele regista di tanta restaurativa messa in scena. Chi l'impresario, lo scenografo, il costumista, il coreografo, il datore luci e l'attrezzista.

Parrebbe un unico famiglio tuttofare, molto caro al pontefice: tedesco anche lui, e infervorato di mistica teutonica; à la Speer. Assieme a un'inarrestabile nobildonna romana (ancora come nel film di Fellini) che, dopo averne combinate di cotte e di crude in giro per il mondo, ora da appassita stylist pare estetizzi il cattolicesimo romano dalle soffitte vaticane; direttamente collegata con le sacrestie. Allo spettacolo mancava tuttavia qualcosa: un Carlo x qualunque. Anche se, assicurano, ce n'era già più d'uno in quinta, in attesa del segnale d'ingresso.

 

 

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