DAGOREPORT: PD, PARTITO DISTOPICO – L’INTERVISTA DI FRANCESCHINI SU “REPUBBLICA” SI PUÒ…
Estratto dell'articolo di Gabriele Romagnoli per “la Repubblica”
Il primo ricordo, mentre elimino il suo numero dalla rubrica del cellulare, è legato a un momento di decadenza, condizione umana che non rende più fragili, ma più autentici. Gli avevano cancellato la sua creatura, il Maurizio Costanzo Show, dai palinsesti, quelli che puoi leggere su Sorrisi e canzoni. Lo avevano mandato “sul digitale”. Una specie di esilio. Napoleone all’Elba sapeva che sarebbe tornato.
Frattanto trasmetteva nel vuoto cosmico, dal teatro Parioli, senza pubblico in sala. Viveva lì dentro, barricato: «Ho paura che se esco mi cambino la serratura». La sua stanza era piena di manufatti firmati Fornasetti e di tartarughe di ogni foggia e materiale. Gli era bastato metterne una sulla scrivania e gliene avevano regalate mille. E sì che considerava l’adulazione una perdita di tempo. Aveva trasformato lo sproposito in collezione. Mangiava lì, rigorosamente in bianco, servito da un cameriere in livrea e guanti, perplesso.
Una porta conduceva al bagno dove andava di continuo. Aver continuato a frequentarlo mentre era in relativa disgrazia lo convinse che cercassi in lui qualcosa di diverso dai più. E così era. L’attrazione era la forza narrativa del generale nel suo bunker, dell’uomo che si specchia in una telecamera, esistendo di riflesso. Le amicizie più profonde, e in fondo anche gli amori, sono quelli tra opposti. Riconoscono però l’uno nell’altro, al riparo dall’altrui curiosità, un carattere comune che vale più di 999 differenze. In questo caso: l’irregolarità. Domata o vissuta nel privato, la sua, eppure fremente; e quanto avrebbe voluto farne la sua bandiera. Avrebbe significato rinunciare a molta parte del successo, al 90% delle ragioni per cui da ieri lo ricordano.
Che altro c’era? Un mondo.
Dovessi provare con tre indizi che Maurizio Costanzo era un atipico rabdomante del talento e della vita scriverei: uno, al suo show negli Anni Ottanta portò Alessandro Bergonzoni. Due: quando divenne presidente di Mediatrade, la fiction Mediaset, volle come direttore Roberto Pace, che lo scavalcava da ogni lato. In un’estate di oltre vent’anni fa concepimmo un programma per la “prima serata e mezza” di Canale 5. Doveva introdurlo Costanzo di profilo alla Hitchcock. Seguivano otto telefilm di 45 minuti tratti da racconti di genere fantastico scritti appositamente da Paul Auster, Emmanuel Carrère e Niccolò Ammaniti.
Che non si sarebbe mai avuto il via libera era scontato e lo sapevamo. Tre: Roberto Pace lasciò poi la famiglia, il lavoro, le inchieste dei magistrati e sparì. Lo rividi a cena in un ristorante vietnamita a New York: frequentava una scuola di scrittura e viveva con un tedesco. Il successivo, ultimo incontro fu in Thailandia, dove Costanzo gli spediva cinquemila euro al mese mentre lui cercava di morire di eccessi. Quando ci riuscì, ricordammo la sua “vita da film” e scrivemmo un soggetto che nulla ometteva, ma lo riscattava nel finale. È “chiuso a chiave” in un file criptato.
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