DAGOREPORT – CHI È STATO A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA DELLE DIMISSIONI DI ELISABETTA BELLONI? LE…
Antonio Gnoli per la Repubblica
Com’era Capucci bambino?
«Insolito e determinato. Mio padre morì che avevo 12 anni. Mia madre si risposò e il patrigno, fatto abbastanza raro, comprese perfettamente la mia vocazione ».
Vestire le donne?
«Non solo vestirle, interpretarle e rispettarle».
Cos’è il rispetto nella moda?
«Lei continua a parlarmi di moda. Io immagino arte ».
Un’arte minore?
«Un’arte senza aggettivi».
Suo padre che cosa faceva?
«Era un proprietario terriero. Un fratello, più piccolo, podestà. E l’altro, più grande, ingegnere e costruttore. Lo zio Pietro edificò il palazzo reale in Abissinia, sposò una ragazza, parente del Negus, fu arrestato per una storia di spionaggio, evase dal carcere e si rifugiò in Siria. Ad Aleppo nacque il figlio Ilario che sarebbe diventato arcivescovo melchita. Un uomo avventuroso, Ilario, sempre in bilico sul confine tra il lecito e l’illecito».
Un prete con qualche mistero?
«Un uomo forte e determinato. Con un fondo inquietante. Ed è stato un protagonista della politica in Medio oriente».
Da quale parte?
«Quella palestinese. Fu anche arrestato dagli israeliani.Negli ultimi anni si è trasferito a Roma e credo viva in un istituto di suore».
Ha mai incontrato suo cugino?
«L’ultima volta che lo sentii per telefono, diversi anni fa, mi disse: Roberto sono sempre alle prese con la giustizia è meglio se non ci vediamo».
È sposato?
«Con il mio lavoro. Un matrimonio felice. Mio fratello Fabrizio, in compenso, ha avuto tre mogli».
Fabrizio Capucci l’attore?
«Proprio lui. Quel mondo gli portò la prima moglie: Catherine Spaak. Un matrimonio durato pochi mesi e con molte complicazioni».
Di che natura?
«Ebbero una figlia e lei tentò di scappare in Francia portandola con sé. Alla fine la bambina fu affidata alla nonna, cioè a mia madre. Una storia complicata che ha provocato dolore e ostilità».
Sua madre che persona era?
«Fin dall’inizio fu contraria a che mi occupassi di vestiti. Una persona che mi aiutò ad aprire la prima sartoria fu una giornalista, Maria Foschini. Mia madre sospettò che avessi una relazione con lei».
Era vero?
«Macché, del resto Maria aveva quasi settant’anni. L’età veneranda invece di appianare i problemi li incanaglì. Per un po’ mia madre continuò a dire: con una donna sposata e per giunta così vecchia!».
La sua vita sentimentale come è stata?
«Le ho anteposto il lavoro, che quasi immediatamente fu un successo».
Di quali anni si parla?
«Il primo atelier risale al 1950. In quel periodo il marchese Giorgini inventò le prime giornate della moda italiana. La Foschini gli portò i miei disegni e lui volle conoscermi. Mi chiese di preparare cinque tableaux di vestiti che avrebbe presentato nel parco della sua villa fiorentina la sera della chiusura della manifestazione. Mi chiese la totale discrezione. Voleva essere lui a rivelare la sorpresa».
Come andò?
«La cosa giunse alle orecchie di Schubert che minacciò di boicottare la manifestazione. Giorgini fu costretto a cedere. Mi disse: non si preoccupi, tutto si rimedia nella vita. Stasera venga a sedere al mio tavolo. Vedrà che sarà lei l’attrazione principale. Non c’è niente di più interessante di una cosa che è stata proibita».
Quel periodo coincise con la “Hollywood sul Tevere”.
«Furono 10 anni bellissimi. Vestivo Gloria Swanson, Esther Williams, Marylin Monroe. Ma anche Isa Miranda, Doris Duranti, Elisa Cegani. Poi arrivò la principessa Pallavicini».
Davvero è un’altra epoca.
«Meravigliosa. Ciascuno di noi si innamora del proprio tempo fino ad assegnargli virtù che il presente non ha. Sono beatamente condannato a vivere il mio passato».
Il suo cosa ebbe di diverso?
«L’Italia degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta, prima della Dolce Vita, fu un laboratorio di umiltà e talento come non si verificò in nessuna parte di Europa. Nel mio lavoro non c’era l’assillante problema della pubblicità, della griffa. Una donna come Irene Brin poteva con leggerezza e ironia raccontare quel mondo restituendone perfettamente la letterarietà».
L’ha conosciuta?
«Fu una buona amica che si vestiva da me. Il suo vero nome era Maria Vittoria Rossi. Credo fu Longanesi a farle adottare lo pseudonimo di Irene Brin. Sposata a Gaspero del Corso. Talvolta andavo ai loro pranzi».
Interpretò con originalità il mondano di allora.
«Per lei il mondano fu il vero trascendente. Trovava sempre un tocco di sacro nelle cose che vedeva. Del resto non fu la sola. Ebbe la fortuna di accedere al gusto e alla ricercatezza delle sartorie di allora».
Cosa avevano di eccezionale?
«Erano fiorite grazie alla volontà di un’aristocrazia femminile che aveva saputo reinventarsi un ruolo e un mestiere».
Ne ricorda qualcuna?
«C’era la marchesa Olga di Grésy, la baronessa Clarette Gallotti, la contessa Gabriella de Robilant, le principesse Lola Giovannelli e Giovanna Caracciolo. Poi c’era il marchese Emilio Pucci, la principessa russa Irene Galitzine, che era stata alla corte dello zar. In quell’Italia ancora povera, dignitosa e stracciona, un manipolo di aristocratiche non creò delle griffe o dei marchi, ma un gusto e uno stile. La più affascinante e inquieta di tutte fu Simonetta Colonna di Cesarò, moglie di Galeazzo Visconti di Modrone».
Spiccava perché?
«Era in anticipo sui tempi. La prima donna della moda italiana, come scrisse Leonor Fini. Tra noi si sviluppò un forte legame. Quando aprii il mio atelier a Parigi mi mandò un corno di corallo rosso e un biglietto».
Cosa c’era scritto?
«Anch’io la raggiungerò tra sei mesi. Poi incontrò un guru in Svizzera e lo seguì in India. Abbandonò tutto. Le sue ricchezze, i figli, chiuse la sartoria e andò a vivere in un ashram di bambini lebbrosi a Brahmapuri. Erano gli anni Settanta. Poi irruppe violenta la delusione. Mi scrisse: tutti i miei amici importanti cui ho chiesto aiuto per questa infanzia diseredata – dai Ford ai Rockefeller – non mi hanno neanche risposto».
È una storia di conversione e di fede.
«Dopo nove anni in India, tornò in Italia. Questa donna, che aveva fatto anche la Resistenza, si ritrovò improvvisamente a dover ricominciare. Ricordo i suoi pranzi vegetariani e speziati, la grazia con cui porgeva ogni cosa».
Tutti i suoi discorsi sembrano segnare una distanza incolmabile rispetto all’oggi. Cosa pensa delle mode di questi anni.
«Improvvisate, destinate a un pubblico televisivo. È un festival di mutande».
Chi apprezza dei nomi in circolazione?
«Un protagonista straordinario, anche se non posso dire di conoscerlo bene, è Armani».
Mi sembra esattamente all’opposto delle sue creazioni.
«È vero: lui veste la vita, io i sogni».
Ci si può vestire con un sogno?
«Perché no? Non diciamo sempre che i sogni vanno realizzati? Naturalmente non è facile. Ricordo quando mi cercò Pasolini».
A che proposito?
«Stava iniziando a girare Teorema. Mi telefonò chiedendomi di disegnare i vestiti per Silvana Mangano. Era una donna che avrei vestito con i miei sogni. Ci incontrammo. La vidi timida, riservata, silenziosa. Trasformata ».
Cioè?
«La ricordavo in Riso amaro, una specie di bomba sessuale. Mi disse che al solo pensiero di quel film provava uno schifo profondo. Aveva cominciato da poco una cura dimagrante. La sua bellezza mi sconvolse.
La Mangano, con cui sarei restato amico per il resto della vita, fu il mio canto di addio. C’è sempre un vertice che è difficile da superare. Credo di averlo toccato con lei».
I suoi abiti sono complicati da indossare.
«È una scelta».
Dovuta a cosa?
«A un’idea di eleganza che non ha molti riscontri nelle società standardizzate. Mi piace immaginare di dover proteggere la donna dalle tentazioni più banali o aggressive».
Alla fin fine lei veste ricche borghesi e aristocratiche.
«La vera eleganza prescinde dall’impegno finanziario e dal censo. Un vestito non ti rende migliore. Ma chi lo indossa può rendere migliore l’abito. Ci sono troppi stracci in giro e non mi sento per niente felice in questo mondo».
Cosa pensa delle modelle?
«Non faccio sfilate da troppo tempo per avere dei giudizi. Ricordo un mondo superficiale dove le protagoniste del momento pensano di essere eterne. Le più scaltre o avvedute si trovano un marito ricco. Le più serie sono quelle che leggono e vanno nei musei».
Molte attrici nella sua vita. E poi i registi: come andò con Pasolini?
«Ci vedemmo in qualche occasione. Un uomo tormentato e intuitivo. Una volta mi disse: tutte le cose che lei coltiva prima o poi si realizzeranno. Ma si ricordi che arrivano anche le cose peggiori e più brutte. Sembrò annunciare la sua fine. La persona che più mi piacque fu Roberto Rossellini. Lo conobbi attraverso l’ultima moglie, Sonali, che poi puntualmente lasciò. Il suo desiderio era di creare una famiglia allargata con tutte le donne che aveva amato».
E Visconti?
«L’ho conosciuto, ma non legammo. Aveva sempre una corte di ragazzi intorno e io non mi divertivo. Certo, era un uomo affascinante. Ma si sentiva il Re e giocava solo con chi gli faceva comodo. Molto meglio Zeffirelli per il quale feci gli abiti della sua Giulietta: Olivia Hussey, una ragazza bella e candida, peccato che mangiasse quantità industriali di cioccolata».
Ha mai vestito la Callas?
«No, per lei c’era Biki. La sua sarta personale la trasformò in un cigno».
Cosa le suscita una donna che è stata bella e non lo è più?
«Siamo ossessionati dai canoni di bellezza. E dovremmo provare a liberarcene. Quando iniziai con la sartoria vestivo Graziella Lonardi. Era di una bellezza imbarazzante. Negli ultimi anni ingrassò, stando male per la trasformazione del suo corpo».
Cosa pensa la sera andando a letto?
«A come vestirò il giorno dopo. Ho un collezione di cappotti classici: doppio petto e quattro bottoni, viola, arancione, rosso pomodoro, giallo zafferano, verde salvia, blu, bianco, nero. Sto male con il beige, il rosa e il celeste ».
Una mania.
«Un gioco. Non fumo e non bevo. Mi vesto. Gli amici mi dicono: ma che ci fai con tutta quella roba? Mi piace vederla. Oriana Fallaci mi fece la prima intervista quando vinsi l’Oscar della moda in America. Disse: non potrei indossare le cose di Capucci, ma nessuno può prescinderne. Ecco io non prescindo dal mio abbigliamento ».
Tutto riconoscono che i suoi abiti sono sotto il segno della grande arte.
«Il momento creativo più straordinario fu il Rinascimento. Le cose moderne mi piacciono solo se dietro c’è una verità. Il resto è bluff».
ROBERTO CAPUCCI GIANNI LETTA ROBERTO CAPUCCI GIANNI ALEMANNO ROBERTO CAPUCCI ROBERTO CAPUCCI ANNA FENDI
ORIANA FALLACIROSELLA SENSI ROBERTO CAPUCCI E GIANNI ALEMANNO ROBERTO CAPUCCI
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