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Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera"
Uno insisteva, e si lamentava di essere stato riconvocato come testimone: «Ho già risposto su tutto... Sono scocciato... la mia psiche non mi mette in condizione di essere sereno». L'altro cercava di spiegare: «à un modo di fare indagini che non si capisce, che non è nelle regole... Vabbè, presidente che vuole farci...». E ancora: «Non vedo molti spazi... à Grasso che è orientato a non fare niente... à difficile evitare il confronto...».
Le voci di Nicola Mancino e di Loris D'Ambrosio risuonano nell'aula bunker dell'Ucciardone, al processo per la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi. Sono le famose telefonate dell'ex ministro col Quirinale, che due anni fa alzarono la temperatura sull'inchiesta fino a produrre il conflitto davanti alla Corte costituzionale.
A parlare con l'ex ministro dell'Interno in crescente stato d'agitazione è il consigliere giuridico del capo dello Stato. Il quale ascolta gli sfoghi di Mancino e spesso risponde con silenzi imbarazzati, o spiegazioni tecniche che non frenano l'ansia dell'ex ministro; comprendendo però la delicatezza di un'inchiesta che - soprattutto a causa delle controverse dichiarazioni del testimone-indagato Massimo Ciancimino - aveva provocato profonde divisioni tra le Procure di Palermo e Caltanissetta.
Quando a giugno del 2012 furono rese note le trascrizioni di queste conversazioni intercettate, D'Ambrosio fu investito da polemiche che certo non lo lasciarono indifferente, e a fine luglio morì improvvisamente. Oggi l'ascolto di quelle voci rende quasi tangibile la preoccupazione che l'allora consigliere del presidente Napolitano aveva non tanto per la sorte processuale di Mancino, quanto per un metodo investigativo che rischiava di provocare contrasti e conclusioni diverse tra i vari uffici giudiziari.
L'ex responsabile del Viminale voleva evitare a tutti i costi il confronto nel processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 (poi terminato con l'assoluzione) con l'ex Guardasigilli Martelli, che riferiva di averlo informato su vicende che Mancino nega tutt'oggi. D'Ambrosio chiedeva, perché glielo aveva domandato Napolitano, se Mancino avesse parlato con Martelli «indipendentemente dal processo», e quello rispondeva che no, «non è che io ci possa parlare».
Dopodiché il consigliere ribatteva che non si poteva fare nulla, la decisione sul «faccia a faccia» toccava solo ai giudici (i quali effettivamente lo considerarono superfluo), ma continuava a sottolineare la necessità di un collegamento tra le diverse Procure da parte dell'allora superprocuratore Grasso, oggi presidente del Senato come lo fu Mancino tra il 1996 e il 2001.
Invece Grasso, sosteneva D'Ambrosio, si nascondeva dietro l'impossibilità di avocare le indagini per evitare d'intervenire, mentre secondo il consigliere del Quirinale avrebbe dovuto attuare un reale coordinamento. Che non significa solo scambiarsi atti, bensì, ad esempio, far condurre interrogatori congiunti.
Magari arrivando a conclusioni diverse, ma senza avere dichiarazioni che potevano cambiare a seconda di come venivano poste le domande. «Ne va della credibilità dello Stato», commentava D'Ambrosio per spiegare l'intervento di Napolitano, in qualità di presidente del Csm, sul procuratore generale della Cassazione a sostegno di un intervento del superprocuratore Antimafia, previsto dalla legge. Per un discorso generale, non sul caso specifico, ribadiva.
Dall'ascolto delle telefonate la posizione del consigliere emerge in maniera piuttosto chiara, al pari del progressivo turbamento di Mancino che chiamava in continuazione temendo di precipitare in una situazione più grave, come poi è effettivamente accaduto con l'imputazione di falsa testimonianza.
E adesso, davanti alla Corte d'assise che deve giudicarlo, rivendica: «Mi sentivo sotto pressione. Siamo di fronte a un teorema in base al quale io avrei saputo che era in atto una trattativa, ma la negavo. Io non ne ho mai saputo niente, da ministro dell'Interno ho combattuto la mafia con determinazione e fermezza. Ho subito una campagna denigratoria, e mi sono rivolto all'amico D'Ambrosio non per avere protezione, bensì per confidare la mia amarezza divenuta angoscia».
Tra le intercettazioni ascoltate in aula, c'è pure quella in cui l'ex colonnello dell'Arma De Donno, già braccio destro del generale Mori, chiamò Marcello Dell'Utri all'indomani dell'annullamento della Cassazione della sentenza di condanna per concorso in associazione mafiosa.
«Sono davvero contento... Ogni tanto qualche persona onesta c'è ancora», si congratula l'ex carabiniere. Due anni dopo Dell'Utri è condannato definitivamente, arrestato in Libano in attesa di estradizione; insieme a De Donno e Mori è imputato al processo per la trattativa.
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