SE NON È ESOTICO, CHE CURATORE (D’ARTE) È? - LA NUOVA MODA NEI MUSEI ITALIANI È LA NOMINA DI QUALCUNO DAL NOME STRANO MA CHE SPESSO NON CAPISCE NULLA DI ARTE ITALIANA

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

Luigi Santagostino Baldi per Dagospia

Vi pare che un curatore di un museo italiano si possa chiamare Bianchi oppure Rossi? Che possa conoscere Vitruvio e Brunnelleschi? Su dai... come siamo rimasti indietro! I suoi requisiti sono altri: esotico, nomade, glamour, radical chic, progressista, lobbista e, soprattutto, non conoscere un'acca della storia dell'arte, specie italiana. Che, del resto, è cosa secondaria, lo sanno tutti.

Il cinese Hou Hanru (nato a Guangzhou nel 1963), nuovo curatore del Maxxi di Zaha Hadid, vuole trasformare il museo romano "in una palestra" (d'arte), come ha dichiarato in una intervista a Francesco Bonami. Beh, il Maxxi una palestra lo è già, è palestra dei corsi di yoga voluti dal presidente (ex gratis) Giovanna la Melandri. Ma lui pensa ad altro.

A Johannesburg ha curato una mostra sulle bidonville e dunque qui potrà felicemente esercitarsi su Tor Bellamonaca e dintorni. Del resto lo si ricorda per "Cities on The Move", una mostra dedicata all'Africa e all'Asia curata con quel curioso personaggio di Hans Ulrich Obrist, un giornalista senza giornale che presentano come critico ma, in realtà, è più che altro un microfono aperto a chi partecipa ai vernissage.

Alla Biennale di Venezia, invece, è stato chiamato Okwui Enwezor, il primo nero a Venezia dal tempo dei mori. Segue Koolhaas, Sejima, Birbaum, Cipperfield, Betsky e compagnia solita lobbistica più il più internazionale di tutti: Gioni da Busto Arsizio. Se chiedi loro, a sorpresa, quando è nato Caravaggio non ce n'è uno che lo sappia. Ma che importa? Kazuyo Sejima dichiarava candidamente che l'architetto italiano più antico che conosceva era Terragni.

Nato in Nigeria, pure lui nel 1963, Enwezor è stato direttore di Documenta 11 a Kassel (la rassegna politically correct che è il nulla ma politically correct) e ha fondato «NKA: Journal of Contemporary African Art». Il suo pezzo da Novanta è... l'impatto dell'arte in rapporto all'apartheid. Bene. Non ha sviluppato particolari interessi nella storia dell'arte italiana (evviva).

E' vero che la prima alternativa che viene in mente è che sprofonderemmo subito nelle parentopoli e lobby massoniche e dintorni italiane, ma questa volta viene da dar ragione al vecchio Sgabone e a monsier Passpartout. I quali, sentite le nomine, hanno dichiarato: "Enwezor è un militante del contemporaneo" (Sgarbi) e "mi domando perché, in materia d'arte, ci sia sempre bisogno, come un piccolo borghese di provincia, di stupire attraverso bizzarrie".

Ma queste bizzarrie piacciono alle gente, si dice. Sarà. Ma da una indagine condotta all'università Statale di Milano tra giovani studenti triennali di Scienza della Comunicazione è emerso che praticamente nessuno conosceva il nome degli artisti (imposti da questi curatori) di cui avevano parlato i giornali nei due anni precedenti. Gli studenti hanno dimostrato di conoscere solo il 6,2% degli artisti ai quali i giornali hanno dedicato pezzi o citazioni e solo l'1,1% di loro aveva visitato una mostra di questi sedicenti artisti, proposti dai signori curatori global ed esaltati dai pifferai dei giornaloni.

 

Kerri Kennedy Giovanna Melandri e Hou Hanru HOU HANRU E MELANDRIenwezor ar x okwui enwezorl x