cesare cremonini

CREMONINI AL CENTRO DELL'URAGANO: “ADESSO CHE SUONO NEGLI STADI, SONO QUELLO CHE AVREI VOLUTO ESSERE. MA A VOLTE I MIEI AMICI NON SONO DISPOSTI A CENARE CON ME GRATIS - PER REALIZZARE L’ULTIMO DISCO SONO ENTRATO IN SALA DI REGISTRAZIONE A 36 ANNI E NE SONO USCITO A 38, SFIGURATO DALLA SOLITUDINE. UN TRAUMA, NON LO VOGLIO FARE MAI PIÙ -  E POI IL 'SANO EGOISMO' DELLE CANZONI DI BATTISTI, DALLA, IL 'MICHELANGELO DELLA MUSICA LEGGERA' E LE FIDANZATE 'SCONTENTE'- VIDEO

 

Malcom Pagani per vanityfair.it

 

cesare cremonini

Tutta la vita, a far suonare un pianoforte: «Di notte non arrivo mai alla fine dei miei sogni. Mi risveglio sempre sul più bello, come un televisore che si spegne sull’ultimo calcio di rigore, a un passo dalla meta. Così da sempre vado a cercare il gran finale dei miei desideri nella realtà. Forse per questo ho iniziato a scrivere poesie che ero ancora un bambino e ho continuato a immaginare di poterlo fare per sempre.

 

Da ragazzo, durante le prove dei concerti che tenevo alle feste liceali, salutavo un pubblico immaginario: “Ciao Milano”, “Ciao Bologna”, “Ciao Roma”, e adesso che a 38 anni ho raggiunto un traguardo simbolico e tremendamente concreto, suonare davvero negli stadi di quelle stesse città, sento, senza spaventarmi, che un percorso si è compiuto e che assecondare la passione di un’intera esistenza mi è servito a regalarmi una bellissima prospettiva di libertà. Sono quello che avrei voluto essere e comprendo che tutto il tempo speso per capirmi, mettermi a fuoco e regalarmi un’identità non è stato tempo perso».

 

cesare cremonini

 Con la stazione di Casalecchio di Reno davanti agli occhi e la gente che per strada lo tratta come un elemento naturale del paesaggio aiutandolo a mantenersi nei binari: «Grande Cesarone!», Cesare Cremonini pensa ai chilometri percorsi e ai treni ancora da prendere. Ad alta velocità: «Ma sarebbe meglio dire alla velocità della luce», Cremonini ha imparato a viaggiare prestissimo. Eleggendo i percorsi improbabili e gli scenari possibili con la stessa autonomia che oggi, mentre la città che gli ha dato i natali, Bologna, è ai suoi piedi, lo ha portato a costruire il suo studio di registrazione in periferia, a un passo dai colli, quasi in aperta campagna.

 

cesare cremonini

«Nel luogo in cui in fondo», dice, «sono cresciuto» e dove, nota con ironia, gli amici di sempre lo vengono a trovare di rado: «Mentre lavoravo all’ultimo album ho fatto un esperimento sociale. Li ho invitati tutte le settimane a mangiare una pizza con me, sono venuti una sola volta. Nessuno ha voglia di muovere il culo dal centro per venire a trovarmi. “Siamo stanchi”, “Lo studio è lontano”, “La prossima settimana Ce”». Giura di soffrire di solitudine ma si capisce benissimo che se avesse intorno un cerchio magico soffrirebbe di più. La normalità gli permette di ridere, esplorare il paradosso, non prendersi troppo sul serio: «150.000 persone hanno deciso di arrivare da tutta Italia per vedermi esibire a pochi metri di distanza, ma a volte i miei amici non sono disposti a cenare con me gratis.

 

cremonini vanity

Mi capita di uscire dal mio studio di notte, con una nuova canzone tra le mani, raggiungere Bologna e girare in macchina per ore ascoltandola, finendo a guardare le stelle con una piadina in mano, sui colli. Vorrei cenare con qualcuno ogni tanto» (ride). A disegnare mondi inesistenti, una costante dei creativi che all’occorrenza sanno recitare, non rinuncerebbe: «A scuola inventavo storie per conquistare le ragazze e in 7 giorni scrivevo diari di 100 pagine che avrebbero dovuto riassumere tutta una stagione: “Ti amo segretamente da oltre un anno”. Ma non funzionava. Avevo tante doti, ma non gli occhi azzurri». Cremonini ha un suo alfabeto e con altri codici non si ritroverebbe.

 

Una lettera di questo alfabeto?

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«La a di Africo, un paesino calabrese dove nel 2002, durante un’estate in cui suonai per 50 date tra feste di piazza e concerti gratuiti, mi ritrovai ad avere come camerino la bottega di un barbiere. La gente entrava e usciva per radersi la barba mentre il suo assistente mi fissava appoggiato alla parete. Erano tutti imbarazzati. Preoccupati che mi dispiacesse, ma io ero contento. Ne approfittai per tagliarmi i capelli prima del concerto e fare due chiacchiere con l’assistente, che conosceva tutte le mie canzoni. L’importante nella vita è sapersi adattare».

 

Oggi la aspettano gli stadi. È cambiato tutto.

«Sì, anche il parrucchiere. Ora in tour mi segue ovunque vada. Ma l’emozione è identica. È chiaro che affrontare 60.000 persone costringe a un lavoro enorme su se stessi, così adulto e profondo, che forse a vent’anni non avrei potuto superare. Non esiste però un palcoscenico in cui mi sia sentito più o meno felice. Sono sempre stato innamorato del mio mestiere, ad Africo come a San Siro. Mi sono immerso da ragazzino nel mondo dello spettacolo e ho capito subito, entrandoci da sconosciuto, che non esiste un pubblico di serie B».

 

La felicità è importante per lei?

«Non l’ho mai sopravvalutata, perché la felicità ha un solo difetto che la rende fragile: purtroppo dipende da quella degli altri. La società cambia in fretta e non sempre mi sento allineato con lei. Ma quest’anno ho attraversato un cambiamento che ha richiesto coraggio. Mi sono detto: “Chi sei? Che persona porti sul palco?”. Per incontrare un pubblico così ampio era necessaria una riflessione intima. L’ho fatta e credo di non essermi mai sentito così felice in vita mia».

 

Perché?

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«Perché in passato identificavo la serenità  come qualcosa che aveva a che fare solo con la scrittura. Trovare un ritornello o una strofa convincente mi dava la gioia effimera del podio. Una volta sceso e messa la medaglia nel cassetto, ritornava l’inquietudine. È stato un grave errore. La ricerca costante di quel momento per anni è stata una ossessione continua».

 

Cos’è cambiato?

«Ho avuto voglia di abbandonare il me stesso di ieri per andare incontro a una nuova fase della vita, ho cercato di rompere il vetro per raggiungere una sicurezza che riuscivo a vedere ma non a toccare. Ho inseguito il coraggio di essere felice nonostante si incontri sempre qualcuno a cui in fondo dispiace che tu stia bene e ho cercato di guardare con contentezza al premio che verrà e non alla preoccupazione di perderlo».

 

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A che scopo?

«Per essere in grado di portare tutta la mia vita sul mio palco e condividerla. Forse alcuni dischi si fanno tormentandosi, ma i grandi concerti, per fortuna, sono l’altra faccia della medaglia. Per realizzare Possibili scenari, sono entrato in sala di registrazione a 36 anni e ne sono uscito a 38, sfigurato dalla solitudine. È stato traumatico perché ho lasciato alle spalle due anni senza ricordi e senza luce. Non lo voglio fare mai più. Ora è arrivato il momento di godere, di mettersi l’abito giusto e accogliere tutti gli invitati. La mia casa ora sono gli stadi».

 

Chi l’ha aiutata a rompere il vetro?

«Il sano egoismo delle canzoni di Battisti».

Lucio Battisti?

«Se escludo le sigle dei cartoni animati, la prima canzone che ho ascoltato in assoluto è stata Acqua azzurra, acqua chiara. Mi diede una tale sensazione di piacere che portai la cassetta in classe per farla ascoltare agli amici. Nell’attacco c’era questa malinconia così diretta, precisa, ficcante e struggente, una malinconia brevissima, da eccelsa canzone pop, che contrastava con la fiduciosa, liberatoria allegria del ritornello. Quel contrasto mi portò lontano.

 

Qualche settimana fa, in macchina, andando in Romagna, mi è accaduto di riascoltarla casualmente e sono rimasto colpito. Dopo così tanti anni, l’atto di coraggio di Battisti mi sembrava attuale. E quel verso, “Con le mani posso finalmente bere”, un rinnovamento che coincideva con le mie incertezze».

 

La preoccupano le incertezze?

«Sì, molto. Ma non ne posso fare a meno. Mi incuriosiscono. Se pensiamo al sogno, all’imprevisto, all’inatteso, le insicurezze  rendono imprevedibile il quadro. Ogni tanto è bene ammetterlo: la maggior parte dei guai ce li andiamo a cercare. In questo sono uno specialista. L’alter ego di Roger Rabbit».

 

Lei ha fatto di tutto per evadere dalle definizioni: da fenomeno pop, ad autore rispettato.

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«Il mio primo disco vendette un milione e seicentomila copie. Avevo 18 anni. Esplosione e implosione dei Lunapop, nella mia vita, hanno rappresentato un Big Bang molto netto. Dopo quell’esordio, fottendomene completamente di quello che gli altri si aspettavano da me, andai avanti. Composi tre dischi, Bagus, Maggese e Il primo bacio sulla luna che andavano di pari passo alla mia crescita. Sono tre dischi, che ho composto sentendomi quasi un supereroe e che hanno contribuito a formare il mio repertorio storico». 

 

Che effetto le fa oggi, essere considerato tra gli autori più influenti in Italia?

«E’ il frutto di un incessante lavoro. La differenza nella musica la fa chi ha la capacità di scrivere dei classici, degli evergreen. Ma questo non te lo insegna nessuno. Ciò che lega 50 Special, Un giorno migliore, Marmellata#25, La nuova stella di Broadway, Logico#1 a Poetica e Nessuno Vuole Essere Robin è il mio desiderio di consegnare canzoni che restino nella memoria delle persone per sempre».

 

Nel 2008 la intervistò Edmondo Berselli. Disse che sembrava molto più preoccupato di nascondere che di mostrare. 

«Berselli colse la mia distrazione, l’ambizione di dover dimostrare qualcosa, che a quel tempo, in effetti, era preponderante. In un momento in cui non ero molto considerato, scuotere la sua attenzione mi parve comunque un ottimo risultato. Ma all’analisi psicologica mascherata da contenuto giornalistico non ho mai dato retta più di tanto perché non sento il bisogno di farmi psicanalizzare». 

 

Le è mai capitato? 

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«Una sola volta e gli parlai di me per tre ore. A fine seduta, sfinito, mi disse: “ho più bisogno io di lei, che lei di me”. Trovo da solo le mie risposte, ma so che valgono per me e non ho mai preteso valessero per tutti. Ho un’identità. Ho i miei cerchi concentrici di protezione, che dalla famiglia si allargano fino agli amici, a Bologna e poi più in là».

 

 

Perché è rimasto a Bologna?

«Potrei dirle che una primavera più bella della nostra, in Italia, non esiste. Ma la verità è che più della fama, dei soldi e del successo, l’affetto di Bologna è il premio più grande che ho ricevuto nella mia carriera. Per rimettermi in forma in vista dei concerti, vado a camminare sui colli tutte le mattine. Lungo la strada vedo molti camioncini, a bordo, le persone che vanno a lavorare presto, si affacciano al finestrino per incoraggiarmi. In un momento in cui l’odio sembra orientato verso chi ha molto, è un risultato che mi tengo stretto. I bolognesi non mi considerano solo un cantante, mi abbracciano e mi parlano come un loro figlio. Pensano che io conosca tutti, anche se in realtà non conosco nessuno e inizio solo adesso a conoscere me stesso».

 

Che rapporto ha con la nostalgia?

«Un rapporto di pura cortesia. Non mi rendo conto fino in fondo delle cose che ho realizzato e quindi non mi mancano. A dire il vero, ho più nostalgia del mio domani, che non mi sembra arrivare mai. Del tempo ho sempre faticato a segnare le tappe. Al polso, per dire, non ho mai portato un orologio».

LUCIO BATTISTI

 

Si guarda con autoindulgenza?

 

«Se rileggo il mio passato attraverso le canzoni che ho scritto, si. Quasi mi commuovo e mi viene voglia di abbracciarmi. Di proteggermi».

 

Perché?

«Perché ho dato sempre tutto. Perché ho iniziato da bambino e ora sono un uomo. E perché in ogni mia canzone c’è un’idea o una persona in cui ho creduto follemente».

 

Le canzoni sono la sua autobiografia?

«Certo, anche. Le canzoni o hanno una storia dentro o sono inutili».

 

Ma lei, Cremonini, si piace?

 

(Qui Cesare, mette da un lato la sua spiccata sensibilità femminile,sorride, beve un sorso ormai caldo di una nota bevanda. Poi risponde, più seriamente di quanto forse non vorrebbe uno abituato a ridere di sé).

«Sempre di più. In fondo sono un ammiratore di me stesso anche perché sono il mio critico più feroce. Se sai di avere una dote, sei anche il primo ad avvertirne la responsabilità».

Cesare CremoninI 2

 

Dicevano: «Da solista non sopravviverà»  

«Convivo con le critiche e con le profezie da quando sono piccolo. Non sono figlio d’arte e mia madre e mio padre, un medico, un dietologo talmente impegnato nel lavoro da non riuscire neanche a immaginare che dalla mia passione nascesse qualcosa di duraturo, non hanno mai appoggiato la mia ambizione di vivere con la musica. Il tifo contro ce l’avevo in casa, ma come dicevo in una mia vecchia canzone, ho iniziato a fregarmene molto presto di quel che dicevano di me. Mia madre voleva studiassi pianoforte. Mi mise sui tasti a sei anni. Quando mi vide con lo smalto sulle unghie e la chitarra in mano, fuor di metafora, me la diede sulla schiena: “Smetti di suonarla, delinquente”, così diceva. I sondaggi sfavorevoli mi hanno sempre portato fortuna».

 

A proposito di sondaggi. Salvini e Di Maio sono arrivati al governo. Cosa pensa dei giovani in politica?

LUCIO DALLA

«Mi provoca una sola riflessione e cioè che essere giovani di per sé non è né un merito né un titolo. Sono le idee e le reali competenze a fare la differenza. Non l’età. Personalmente sento la mancanza di una formazione culturale in alcuni attuali politici, un Paese come l’Italia lo merita».

 

Con la critica che adesso la incensa e ieri la osservava con sussiego che rapporto ha?

«Perdono facilmente gli stronzi di tutti i giorni, figuriamoci se non posso perdonare i giornalisti. Le persone che hanno fatto dell’ascolto dei dischi un mestiere a volte percepiscono le canzoni in maniera opposta a chi le vive normalmente . Ed è per questo che grazie a Dio, la cultura popolare va avanti anche senza i critici. Da qualche anno, è vero, mi trattano tutti con molto più rispetto, ma io mi sono sempre più fidato dei sentimenti che delle coccarde. Più che dei dischi io vorrei che la critica svelasse i volti dietro alle maschere». 

 

 

È importante il lusso della malinconia?

CREMONINI TATTOO

«È una chiave di lettura di quel che ho fatto per tutta la vita. Quando Nick Hornby ha scritto “Non buttiamoci giù”, un libro che racconta la storia di alcune persone che stanno per lanciarsi nel vuoto dall’alto di un palazzo, gli hanno domandato perché avesse scelto una storia simile. Ha risposto “Perché mi dà l’occasione di affrontare la mia parte malinconica e soprattutto di riscattarla”. È così anche per me. Non c’è una mia canzone che finisca male, il protagonista si salva sempre. Consiglio vivamente a chiunque si senta giù di ascoltarmi, perché fa bene».

 

 

Quindi le canzoni sono la panacea di tutti i mali?

«Magari fosse così. Sono vitamine, ottimi integratori, ma non bastano, men che mai in un’epoca come questa, in cui ci si accontenta di mettere un like per far sapere a qualcuno che lo stai pensando, per dire cosa sentiamo. Grazie ai social non si è mai scritto così tanto da quando l’uomo ha imparato a farlo, eppure la gente è sempre più impaurita. È necessario spiegare, argomentare. Ci vuole un perché, altrimenti ogni parere varrà come un altro».

 

In Nessuno vuole essere Robin sostiene che siamo tutti più soli. «Tutti col numero 10 sulla schiena e poi sbagliamo i rigori». 

CREMONINI

«Per scrivere Robin sono finito in mondi interiori difficili e misteriosi. Dentro c’è il mutismo di cui soffriamo tutti, l’umiliazione quotidiana del vivere in una società che si fa sempre più cinica, ma nasconde un’insicurezza cronica. Non sapevo più come farla uscire, e ci sono riuscito così. Le metafore calcistiche sono un mio marchio di fabbrica e tornano periodicamente quando si apre un ritornello. Il calcio, anche se di partite in grado di accenderti l’anima ce ne è una all’anno, resta una bella rappresentazione della natura umana. C’è lo scontro mentale e quello fisico, il tifo che è come una religione monoteista, in una partita il carattere delle squadre è condizionato dalla capacità dei singoli di collaborare tra loro, esiste un’organizzazione di gioco studiata a tavolino e intuizioni degne della migliore filosofia». 

 

Lei a calcio ha giocato?

«Da ala destra e sulle spalle non avevo il 10, ma l’11. L’allenatore da piccoli ci portava a correre sulla collina di San Luca, lungo un percorso in cui c’è un paradiso fatto di pianura, un purgatorio animato da una leggera salita e un inferno di 50 gradini per giungere alla basilica. Ora, che per smaltire i chili in più e preparami al tour, a San Luca vado a correre, ogni tanto ripenso alle partite e al sollievo di mia madre, che quando l’allenatore non mi convocava era felice e quando invece mi convocava provava a dissuaderlo: “Fa freddo, non potrebbe lasciarlo a casa?”».

CREMONINI ROSSI

 

Da San Luca si vede lo stadio di Bologna.

«Si, ad un certo punto della salita, lo stadio lo vedo nitidamente. Sembra una cartolina. Mi fermo sempre lì a prendere fiato e penso che è bello essere il primo bolognese dopo Dalla a suonare nello stadio della mia città. Il primo in assoluto con un concerto tutto suo».

 

A Dalla forse il suo Robin sarebbe piaciuto.

«Chi può dirlo? Lucio forse l’avrebbe apprezzata perché parla di noi ora, di oggi, ci descrive tutti ma lo fa utilizzando un ponte levatoio, qualcosa che si rifà ai modelli di ieri. E io penso che anche se Dalla con Bologna ha e avrà un legame sempre fortissimo, da quel legame non ci si debba fare imbrigliare. Con la storia dell’olimpo cantautorale, non sarebbe mai stato lì a menarsela troppo, perché Lucio aveva questa caratteristica straordinaria di parlare con il prete, il giornalaio e il travestito, di prendere da ognuno qualcosa e di essere profondamente contemporaneo. Dalla è stato il Michelangelo della musica leggera».

 

Cremonini vive anche di inquietudini?

CESARE CREMONINI

«Tempo fa raccontavo a Pupi Avati di come, girando di notte per Roma, fossi stato colto dall’insicurezza. Buio, puttane, delinquenti, un’atmosfera felliniana. Pupi ha sorriso e poi ha detto “Cesare, non è Roma. Sei tu”».

 

Fellini sognava un mondo in cui si potesse non scontentare nessuno.

«Ci ho rinunciato. Mi sale subito la pressione, penso alle fidanzate scontente perché sono sempre in studio, ho una coda di paglia lunga da qui a Parigi». (Ride).

 

Ne ha scontentate tante?

«Forse e non perché come sosteneva Paolo Sorrentino, nella vita e in amore il pareggio non esiste, o come diceva mio nonno, semplificando: “Sei un donnaiolo”. Ho sempre associato le mie ragazze alla scrittura, c’era una sovrapposizione tra quello che scrivevo e quello che vivevo. Ora mi sono liberato anche di questo. Scrivo canzoni romantiche, ma non sono più necessariamente legate a una vera storia d’amore».

pupi avati (3)

 

In concerto ne porterà molte. Come se lo immagina questa prima in uno stadio?

«Come il centro dell’uragano. Ho la sensazione che interiormente sarà tutto calmo e il cielo sarà limpido, ma intorno, soffieranno emozioni a 500 all’ora. Ci vedo tutto, in questo concerto. Il passato, il percorso che ho fatto e anche, soprattutto, il futuro. Era il mio sogno: da bambino non ho sognato di vincere una sola volta, ma di vivere così tutta la vita. Io vado negli stadi perché vorrei restarci».

giosada cremonini

 

lucio dalla gianni morandivalentino rossi cremonini 4

 

battisti minacremonini con la moto di rossi valentino rossi cremonini 1