
DAGOREPORT - DIRE CHE SERGIO MATTARELLA SIA IRRITATO, È UN EUFEMISMO. E QUESTA VOLTA NON È…
Fabio Chiusi per “l’Espresso”
Siate affamati, siate folli, diceva Steve Jobs nel suo celebre discorso a Stanford del 2005 riassumendo lo spirito che ha animato il suo genio e quello della sua creatura, Apple. A quattro anni dalla sua scomparsa e dal passaggio di consegne a Tim Cook, il gigante di Cupertino ha perso la follia, ma non l'appetito. Soprattutto, non l'hanno perso i suoi seguaci, che hanno smentito ogni profezia di sventura.
Per convincersene, basta scorrere i risultati finanziari dell'azienda: il fatturato, per l'ultimo trimestre del 2014, ha raggiunto i 74,6 miliardi di dollari; il profitto, quota 18 miliardi. Per il "Guardian" è «il più elevato di sempre per qualunque impresa», perfino superiore di quello di colossi energetici come ExxonMobil e Gazprom. Con 178 miliardi di liquidità e un valore borsistico in continua ascesa - tutte cifre senza eguali - per Apple ora il problema è prima di tutto capire che fare di quella montagna di denaro.
STEVE JOBS E IL PRIMO MACINTOSH
La Cnn, in un esercizio teorico, ha ricordato che basterebbe per comprare Disney o Amazon; Howard Silverblatt, di Standard & Poor's, ha notato che, se lo volesse, Apple potrebbe distribuire 556 dollari a ciascuno dei 320 milioni di cittadini americani. Più concretamente c'è chi, come l'azionista Carl Icahn, chiede un riacquisto più consistente di azioni proprie per aumentarne il valore, e chi invece ritiene sia la strada sbagliata, quella che potrebbe condurre davvero laddove l'azienda dovrebbe già trovarsi oggi, secondo svariati analisti: in un eterno rimpianto del fondatore prematuramente scomparso.
STEVE JOBS E IL PRIMO MACINTOSH
Fedeli senza Messia. Ma non è affatto banale che la Apple a guida Cook non stia vivendo quella pesante eredità come un fardello. La cultura aziendale, per esempio, è la stessa: essere i migliori nel creare prodotti capaci di coniugare innovazione, semplicità e bellezza, con un focus sull'estetica tale da considerare i designer - a partire dall'ideatore delle linee di iPod, iPad e iPhone, Jonathan Ive - alla stregua di sacerdoti del Verbo della multinazionale.
Oggetti, ma rivoluzionari, che mirano a "cambiare il mondo" ed entrare in connessione emotiva con gli acquirenti. C'è poi quella che Adam Lashinsky ha chiamato "l'eleganza del rifiuto", il concentrarsi su pochi prodotti - quelli che stanno tutti insieme su un unico tavolo: era il criterio di Jobs. Dal manifesto del marketing di Apple, steso agli albori da Mike Makkula, a oggi, la filosofia è rimasta la stessa. Le critiche, pure.
C'è chi ricorda che l'azienda non produce una reale innovazione dall'iPad, nel 2010. Oggi gli occhi sono tutti puntati sull'orologio intelligente al lancio il 9 marzo, ma comunque vada è facile ribattere a chi, come Yukari Kane, argomenta che la nuova dirigenza non sta «reinventando il mondo» ma «arroccandosi a fare quadrato»; e che, tutto sommato, non è stata Apple a inventare lettori mp3, tablet e smartphone: semplicemente, per così dire, l'azienda ne ha fatto oggetti di culto, per cui passare una notte all'addiaccio, in coda. Nelle parole del vicepresidente e responsabile del software, Craig Federighi: «Nuovo è semplice, migliore è difficile».
Le vendite record del telefonino della Mela negli ultimi tre mesi, 34 mila all'ora per due terzi del fatturato, dimostrano che Apple ci sta riuscendo nonostante la scomparsa del suo genio. La domanda, naturalmente, è quanto possa ancora durare l'idillio coi fedeli senza il Messia. Per provare a comprenderlo, bisogna guardare innanzitutto ai cambiamenti apportati da Cook all'azienda.
Certo, l'erede non ha il carisma del predecessore, ma non è detto sia indispensabile. Il nuovo amministratore delegato, per esempio e contrariamente a Jobs che amava pranzare da solo con Ive, fa spesso capolino alla mensa aziendale, sedendo e chiacchierando con gli impiegati. Chris Blackhurst su "The Independent" ha riassunto il nuovo stile di leadership scrivendo che l'immaginario hippy degli esordi ha lasciato lo spazio a «semplicità e cinismo», in particolare quello per tramutare il fascino che da sempre Apple proietta sui suoi clienti in una sorta di prigionia che li vede costretti a inseguire l'ultima evoluzione dei suoi prodotti, anche se non sempre realmente necessaria - un esercizio che alla lunga potrebbe stancare.
Quanto alla semplicità, potrebbe essere insieme un fattore chiave nei risultati odierni e nel loro non perdurare. In senso positivo, è quella che Cook ha implementato sotto la sua guida: meno segretezza, traduce Bloomberg, gruppi di lavoro allargati nel numero e, soprattutto, meno specializzati. Le persone, dice Cook, ora «si combinano l'una con l'altra al punto di non poter dire più chi lavora dove».
La scommessa dell'iCar. L'Apple Watch sarà il primo banco di prova per questi team interdisciplinari, ma il risvolto della medaglia potrebbe cominciare a presentarsi nel caso l'azienda dovesse mettere troppi prodotti sul tavolo. L'esempio cui tutti gli esperti fanno riferimento è la possibile immissione di Cupertino nel mercato delle automobili, da un lato nella guerra lanciata a Google - il vero concorrente, secondo Cook - per il dominio del pannello di controllo "touch" e integrato con le funzionalità degli smartphone, e dall'altro per sfidare Mountain View con una vera e propria vettura elettrica che si autoguida.
Il progetto secondo il "Financial Times" vedrebbe già al lavoro dozzine di esperti in una sede segreta a Silicon Valley, ma se il mercato dell'auto negli Stati Uniti è in crescita, e i margini di profitto potrebbero non essere un problema per chi ha fatto dell'inventarseli laddove non c'erano - pc e telefonini - un marchio di fabbrica, è altrettanto vero che si tratta di un settore terribilmente competitivo, molto regolamentato e in cui difficilmente il solo design basterebbe a fare la differenza.
E resta ancora bene da capire che se ne farà Apple del servizio di musica in streaming Beats, pagato ben tre miliardi. Il rischio è il riproporsi della situazione precedente al ritorno di Jobs, nel 1997: troppa carne al fuoco.
Ci sono poi le questioni giudiziarie, dai continui scontri con Samsung per i brevetti all'accusa di aver cospirato con cinque dei principali editori statunitensi per falsare al rialzo il prezzo degli ebook, danneggiando Amazon. C'è l'accusa di eludere il fisco, più attuale che mai visto il rinnovato interesse del legislatore nazionale ed europeo per la questione - che, sia chiaro, riguarda svariate multinazionali di ogni settore.
TIM COOK FA VISITA ALLA FABBRICA FOXCONN IN CINA
E ci sono le cicliche ondate di indignazione per il suo fare ricorso a fornitori cinesi che hanno più volte mostrato scarso o nullo riguardo per le condizioni dei lavoratori, a cui Apple ribatte sostenendo di essere stata essa stessa a segnalare i problemi, laddove ci sono, e tentare di porvi rimedio.
In cerca di etica. Ma ci si attende di più se, come è vero, è Cook e non Jobs ad avere impresso all'azienda una forte sensibilità sui temi etici e dei diritti civili. Jobs riteneva la filantropia insufficiente a risolvere i problemi del mondo, e Cook invece vi investe. Sotto la nuova dirigenza, a febbraio, Apple ha annunciato investimenti per 1,7 miliardi di euro per rendere i data center di Galway, in Irlanda, e nello Jutland centrale, in Danimarca, completamente ecologici.
Ed è Cook a essersi dichiarato gay dando corpo ai suoi proclami sull'importanza della lotta alla discriminazione così come, più di ogni altro, a essersi opposto all'idea dell'intelligence a entrambi i lembi dell'Atlantico di inserire accessi preferenziali (backdoor) per i governi in software e hardware, così da renderli perfettamente intelligibili alle spie.
Se insomma il filosofo politico Evgeny Morozov poteva rinfacciare al fondatore (nel pamhplet edito da Codice "Contro Steve Jobs") di disinteressarsi al ruolo complessivo di Apple nel rapporto tra tecnologia e società, oggi ciò non è più vero. Per ragioni anche di interesse, dato che Cook ha buon gioco nel dire che per la sua azienda - contrariamente a Google e Facebook - «tu non sei il prodotto», ma è innegabile che la presa di posizione sia la più netta dell'era post-Snowden.
Da "ribelli" a establishment. Altrettanto innegabile tuttavia è che tutto sia cambiato da quando, introducendo il Macintosh, Apple poteva giocare sul suo ruolo di rottura dei monopoli acquisiti con la celebre pubblicità che proclamava: «Il 24 gennaio vedrete perché il 1984 non sarà come "1984"» il romanzo distopico di George Orwell. Al contrario, oggi la sua mannaia inflessibile sul controllo delle app disponibili nel suo negozio virtuale e la totale chiusura al mondo del codice aperto preoccupano i pensatori più raffinati della società iperconnessa.
Uno di loro, Dan Gillmor, ha scritto su "Medium" proprio negli scorsi giorni perché lui stesso, tra i primi ad abbracciare i prodotti Apple, abbia deciso di abbandonarli per sostituirli con software libero, e con un telefonino Android. «Stiamo perdendo il controllo su strumenti che un tempo promettevano pari opportunità nell'espressione e per l'innovazione», scrive Gillmor, che poco oltre si spinge fino a definire Apple «pericolosa per il futuro delle reti aperte e della tecnologia controllata dall'utente».
Comunque la si pensi, la retorica dei "ribelli" che fece la fortuna della comunicazione di Jobs non funziona più, e i nuovi messaggi sono più deboli. Lo stesso copywriter Ken Segall, che ha lavorato a stretto contatto col genio scomparso per la celebre campagna "Think Different", racconta (nel libro "Dopo Steve Jobs'" di Yukari Kane) che in passato la pubblicità dell'azienda comunicava i suoi slogan «indirettamente, attraverso immagini capaci di stupire e parole che spingevano le persone a identificare la parte migliore di sé con le aspirazioni dell'azienda». Oggi invece, riassume Kane, sono solo un modo per «ribadire che Apple è ancora grande». Ma dalla vetta, prima o poi, non si può che scendere.
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