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Silvia Fumarola per “la Repubblica”
Un ritmo che dalla metà degli anni 70, dal Bronx - già preso di mira dagli speculatori che buttavano giù palazzi per espandersi - invade come un’onda le strade di Manhattan, fa ballare la New York scintillante, sconvolge le regole. Niente sarà più come prima: il rap che dà voce alla rabbia e alla voglia di riscatto travolge l’arte, la moda, il linguaggio. Un vortice di balli sfrenati, pistole e spaccio, guerre familiari perché le ragazze afroamericane potevano cantare in chiesa, non nelle sale d’incisione. La musica come ragione di vita, e che musica.
The get down, la serie di Baz Luhrmann in 12 episodi (per ora sono disponibili i primi sei, gli altri si vedranno nel 2017) che debutta il 12 agosto su Netflix, è un capolavoro di ricostruzione storica e ritmo. Un kolossal con un budget da record, 120 milioni di dollari, per raccontare, attraverso la storia di sei amici del south Bronx nel 1977, mentre Thelma Houston cantava Don’t leave me this way e faceva ballare le ragazze dell’Upper east side, come un nuovo stile prendesse piede: gli anni in cui tutto doveva accadere, prima che i dj diventassero star.
Ogni dettaglio, dai capelli come giganteschi cespugli, ai costumi, doveva essere perfetto, la cura è maniacale: migliaia di pantaloni a zampa d’elefante, gilet, minigonne, giubbottini Adidas, scarpe di camoscio Puma di quel periodo, ritratti di Diana Ross e delle modelle dell’epoca, simbolo di desiderio e trasgressione, sono appese nei magazzini dei costumi a Glendale, quartiere di pendolari del Queens, a un’ora da Manhattan, set della serie (girata anche nel Bronx, Manhattan, e Brooklyn). Ogni dettaglio racconta una storia, tutto deve essere com’era, come ha voluto la costumista Catherine Martin, moglie di Luhrmann, che con Moulin Rouge e Il grande Gatsby si è aggiudicata quattro premi Oscar.
Il più visionario, fantasioso creatore di musical ( Romeo + Giulietta, Moulin Rouge e Il Grande Gatsby) ha ricreato qui le discoteche, i garage, gli appartamenti della New York di quegli anni. «Ci ho messo dieci anni per realizzare la serie» racconta entusiasta Luhrmann, chioma argentata lucente, in uno studio foderato di vinili «Adoravo la disco music, poi il rap ha cambiato tutto. Raccontare gli anni che hanno cambiato la musica sembrava una sfida impossibile.
Solo un australiano con radici svizzere innamorato dell’America poteva riuscirci». Ride. «Per me The get down è una storia toccante su quanto sia importante credere in se stessi, la parola chiave è hope, speranza. Ma tutto è molto reale, la fatica, la voglia di riscatto, le dinamiche delle gang. La serie racconta i sogni realizzati di giovani sognatori, abbiamo mescolato una grande storia, la nascita di un genere musicale che avrebbe cambiato il mondo, con le vicende personali dei protagonisti.
New York era un miraggio, una città dove la cultura dominante era quella della disco e ragazzi come Shaolin, Ra Ra Kipling, Boo Boo potevano solo disegnare con le bombolette spray il proprio nome sul vagone della metropolitana per gridare: “Io esisto”».
«Allora la disco music era la grande protagonista e noi abbiamo cambiato tutto», dice Grandmaster Flash, considerato uno dei padri fondatori dell’hip hop (in The get down è interpretato da Mamoudou Athie, è produttore associato mentre il numero uno dei rapper, Nas, è produttore esecutivo).
«No, non è Disneyland, è il Bronx », viene ripetuto come un mantra e ci vuole coraggio per emergere, portare felicità, bellezza e colore dove c’è degrado. «Ma questa è una storia di riscatto» dice Luhrmann che sottolinea come l’ideazione della serie nasca da un lavoro collettivo. «Qui nessuno si è seduto da solo in soffitta per scrivere un soggetto che qualcuno ha poi diretto, l’ideazione nasce dagli incontri e dal confronto con le persone legate al mondo che descriviamo, con il giornalista Nelson George abbiamo trasportato i ricordi nella vita reale.
The get down è la memoria collettiva, l’esperienza, il sentimento per un’epoca e un luogo che diventa fiction. Per me, cresciuto in una città sperduta dell’Australia, New York era il luogo dove tutto accadeva, dove esplodeva la creatività: abbiamo visto tante raffigurazioni del Bronx. Ma chi erano questi ragazzi, questa generazione di artisti?
La serie non racconta semplicemente le radici dell’hip-hop o il tramonto della disco. Abbiamo creato personaggi che guardano il mondo coi loro occhi ». Shameik Moore, Skylan Brooks, Tremaine Brown jr, Herizen Guardiola, Justice Smith, e il figlio diciottenne di Will Smith, Jaden (già una star con 4 milioni di followers su Instagram), sono i protagonisti. «Amo la musica ma non conoscevo la storia, papà mi ha spiegato tutto» spiega «abbiamo visto vari documentari su rap e hip hop. Baz è il più entusiasta di tutti, ci ha offerto un altro punto di vista e ci ha fatto sentire forti».
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