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Michael Wolff per "la Repubblica"
Quattro anni fa, mentre partecipavo a una tavola rotonda insieme a Johnnie Roberts, che all'epoca scriveva per Newsweek, scommisi con lui una cena se di lì a cinque anni quel settimanale avrebbe, come credevo, chiuso i battenti. A quell'affermazione i rappresentanti dei media reagirono bofonchiando con diffidenza. La mia previsione tuttavia si è rivelata due volte corretta: due anni fa il Washington Post, da tempo proprietario di Newsweek, ha ceduto la rivista per pochi soldi; e successivamente i suoi attuali dirigenti hanno annunciato di essere anch'essi sul punto di abbandonarla.
Si fa un gran parlare di Tina Brown, attuale direttore di Newsweek, della sopravvivenza del marchio, di digitale qui e digitale là , e su un futuro che si annuncia promettente, ancorché diverso... sciocchezze. Non esiste un solo professionista dell'editoria che non sappia, e che già non sapesse almeno quattro anni fa, che Newsweek è finito, kaput, spacciato. Soprattutto, però, è sorprendente e insensato che qualcuno abbia voluto sforzarsi di far finta che le cose stessero diversamente.
Era ovvio per una rivista generalista che vende qualche milione di copie a settimana e che non aveva una circolazione e delle entrate pubblicitarie tali da consentirne la sopravvivenza. La speranza che la rivista potesse andare avanti era esplicitamente collegata al fortunato destino dell'Economist, il settimanale che continua ad essere al tempo stesso rispettato e redditizio. Nell'ultimo anno della gestione Washington Post, Newsweek aveva addirittura annunciato un progetto grandioso, che prevedeva che la rivista si ispirasse da vicino al modello dell'Economist.
Anche in quel caso, però, nessuna persona di buon senso ed esperta di editoria ha mai creduto che tale strategia fosse anche solo remotamente ragionevole. L'Economist si occupa del mondo degli affari e ha un prezzo di copertina elevato, mentre Newsweek si rivolgeva alla "middle America" e aveva da tempo decurtato il costo dei suoi abbonamenti. Perché fingere, allora? L'unica spiegazione pratica è da ricercarsi nella speranza che il nome Newsweek, un tempo autorevole e influente, potesse in qualche modo continuare a suscitare reverenza e a incutere timore in qualcuno.
Di sicuro Sidney Harmon, il ricco millenario (in realtà aveva 92 anni) che lo prelevò dalle mani del Washington Post promettendo di coprirne le perdite, provava un senso di reverenza (morì poco dopo). E Barry Diller, il magnate miliardario che successe ad Harmon, lo considerava certamente più prestigioso del Daily Beast, che stava finanziando e al quale lo accorpò. Diller sostenne Tina Brown nei suoi tentativi di rilanciare il Daily Beast, spinto probabilmente da molte delle stesse ragioni che lo avevano portato ad acquistare Newsweek.
Tuttavia, non riesco a immaginare che chiunque avesse un briciolo di acume editoriale potesse credere che Tina Brown fosse in grado di dirigere un'operazione editoriale, e men che mai di trasformarne le sorti. Sia Brown che Newsweek, inoltre, apparivano come minimo assai a disagio nel mondo digitale, che si reinventa costantemente. Tutte le persone coinvolte nell'operazione Newsweek-Daily Beast avevano però raggiunto un punto tale - e si ispiravano a un modello - per cui la disciplina operativa non rappresentava realmente il cuore del problema.
Nessuno avrebbe potuto trarne dei guadagni seguendo i vecchi schemi, e tutti ne erano consapevoli. Inoltre, nessuno sarebbe riuscito mai a vendere un numero di copie e una quantità di spazi pubblicitari sufficienti a coprire i costi. Soprattutto, Brown non fece alcun tentativo per adattare l'impresa alla sua nuova realtà . Si prenda ad esempio The Week: un settimanale di attualità che a rigor di logica è ben più affine a Newsweek di quanto non lo sia l'Economist. Si tratta di compendio di articoli di attualità : un prodotto a basso costo ma redditizio.
Tina Brown però non era disposta a abbracciare una strategia così stracciona. Né ha provato ad adattare il Daily Beast al nuovo formato delle pubblicazioni online, che per sostenersi con della pubblicità a basso costo richiedono grandi volumi di traffico. L'obiettivo di Newsweek-Daily Beast era un altro: Diller mi disse una volta che per lui si trattava di un progetto speculativo e che si rendeva conto di aver bisogno di un colpo di fortuna.
Diller è un uomo immensamente ricco e non credo che a quel punto della sua carriera fosse interessato a dare vita all'ennesima, sciatta operazione editoriale via Internet, anche se di successo. Dopotutto, poteva permettersi di nutrire delle ambizioni grandiose. Per pura sfida, per mettere alla prova la fatalità del caso, valeva la pena vedere se sarebbe stato possibile ancora una volta creare un'impresa editoriale briosa e autorevole, anche se di breve durata.
Persone importanti che parlano di persone importanti. I più duri e disincantati tra noi vogliono continuare a crederlo, per quanto folle e ridicolo. Quella cena in ogni caso l'ho vinta, anche se con rammarico.
(Traduzione di Marzia Porta)
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