DAGOREPORT - BENVENUTI AL “CAPODANNO DA TONY”! IL CASO EFFE HA FATTO DEFLAGRARE QUEL MANICOMIO DI…
Marco Giusti per Dagospia
Seee… la Nouvelle Vague italiana… Seee… il cinema italiano che si sente internazionale… Per fortuna che Paolo Baratta aveva appena detto che i nostri autori si stanno allontanando dalla romanità e solo un paio di registi ci girano attorno. Madeché? Il cassonetto dell’Ama modello Raggi è presente in almeno tre dei film italiani del genere neorealismo-neotruce pronti per Venezia, e con scene importanti, quasi da coprotagonista. Per non dire degli autobus, delle Metro, della Vela di Calatrava, del Quarticciolo, del Laurentino 38, di Piazza Vittorio.
Stefania Ulivi ha appena scritto un articolo sul Corriere sui nuovi set romani nei film italiani presenti a Venezia. Non che sia sempre un male, però. Ma, certo, l’immagine del trasudare di romanità, di ahò-sticazzi-chetestaiainventà, per non dire di film alla sub-Jeeg o sub-Non essere cattivo, cioè romanità di borgata che prende una chiave fantasy o una chiave neorealista trucissima, può non far così piacere a chi pretende invece che esiste un salotto del cinema italiano di livello e di temi internazionali.
A parte pochissimi casi, non è così. Diciamolo subito. Il cinema italiano di oggi, specialmente quello presentabile a un festival, si muove quasi interamente nella violenza di territori miserabili. Cioè Roma e i suoi quartieri, nella linea Suburra. E Napoli e la sua provincia nella linea Gomorra. Con pesantissima appendice su Casal di Principe e Terra dei Fuochi.
Attorno a queste due città si muovevano in gran parte anche i film italiani presenti a Cannes, Fortunata, L’esclusa, Cuori puri. Mentre A Ciambra di Jonas Carpignano ci portava fra gli zingari e gli emigrati addirittura in Calabria e Sicilian Ghost Story di Grasso e Piazzadonia a Agrigento.
A Venezia vedremo le prime due puntate di Suburra, Il contagio, Brutti e cattivi, La famiglia, interamente girati a Roma, mentre Ammore e malavita, L’equilibrio, Nato a Casal di principe, Veleno, Gatta Cenerentola, interamente ambientati a Napoli e in Campania. Perfino Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli si permette una tappa trucidella a Anzio, mentre Hannah di Andrea Pallaoro è in parte girato a Roma.
Puoi essere un giovane regista di famiglia ricca che ha studiato in America e pensi di girare un film come se fossi un autore rumeno che hai visto a Cannes o puoi essere un fedele della scuola neorealistafantasy alla Nicola Guaglianone che si presenta con protagonisti senza gambe e senza braccia poco cambia. Puoi girare, insomma, pesantissimi film poco comprensibili dal pubblico o violentissime avventure con freaks e tossici del Laurentino 38 o del Quarticciolo, il succo rimane lo stesso.
Perché i tuoi sogni cinematografici rimangono gli stessi. Disagio. Periferia. Violenza. Miseria. Spazzatura. E cassonetti. La cosa più allegra sarà, alla fine, Ammore e malavita dei Manetti, dove almeno si canta. E tutto è girato con budget ridicoli, perché tutti i soldi del cinema italiano vanno oggi alle serie. Che poi significherà quest’autunno Suburra contro Gomorra. E quel poco che rimane al cinema, commedie escluse, dove non girano però tanti soldi in più, dovrebbe bastare per assicurarsi pochi attori noti e tanti volti sconosciuti da vecchio neorealismo.
Capisco la difficoltà di fare un festival oggi. Ma lo stato del nostro cinema, tra Cannes e Venezia, è proprio questo. E non riesci a inventarti un cinema diverso perché l’immaginario dei nostri giovani registi e sceneggiatori, spesso ragazzi di buona famiglia che hanno studiato,è tutto concentrato nel farwest romano e napoletano, su banditelli trucidi e tossici demmerda che si vendono anche i figli. Le loro scenografie sono reali, con tanto di monnezza, e i loro protagonisti vanno imbruttiti e storpiati.
Quando non comanda una noia attanagliante da film medio da festival, il cinema della nuca, come lo chiama Guaglianone, comanda quel che rimane del rigore rosselliniano (beh, un pochetto…) o l’euforia da dark comedy aggressiva e violenta. Ma l’immagine dell’Italia che viene fuori è pesantissima. E ossessivamente miserabile. Se volevamo sognare col cinema, insomma, non si sogna. Almeno che il tuo sogno non sia quello di uscire dalla miseria e dal cassonetto. O salvo sognare col grande passato del nostro cinema, i sempre più brutti documentari sui padri del cinema italiano o gli spesso inutili restauri di classici.
Rispetto a tutto questo sono decisamente più glam i Cristi in croce di Roberto Cuoghi alla Biennale. Ora. E questo magari è un problema. Non è facile vendere con questi film così pesanti l’immagine festosa di un festival internazionale fatta di tappeti rossi e lustrini. Almeno in La La Land si ballava. Ma è evidente che, malgrado tre-quattro buoni film presentati a Cannes, non siamo per nulla di fronte a una Nouvelle Vague del cinema italiano.
E che quello che abbiamo seminato in questi ultimi vent’anni nel paese ci viene ripresentato dai nostri figli con quest’immaginario violento e desolato. Chi ha studiato all’estero, nelle migliori scuole di cinema, ce lo racconta in maniera più noiosa ma più strutturata, chi non ha studiato così bene, però, ci arriva lo stesso. Magari in maniera più vivace. Compito di un festival dovrebbe essere quello di capire gli autori, prima di lanciarli nel vuoto.
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