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Estratto dell'articolo di Fulvia Caprara per "La Stampa"
Con gli anni Wim Wenders ha accentuato la sua aria da guru ascetico, sciamano spirituale di una generazione di fan che, oltre a venerarne le opere, si specchiano nel suo pensiero: «Non mi piace essere depresso, ma, certo, in questa fase, nel mondo, c'è ben poco di cui essere contenti ed è normale sentirci tutti un po' giù.
Per questo preferisco pensare a lungo termine, immaginare che, nel tempo, le cose possano cambiare… che, magari, un Paese come l'America possa tornare in se, che i suoi cittadini possano capire quale grande buco nero Donald Trump rappresenti nella loro storia».
I nostri non sono certo Perfect days, eppure, in quel film, lei offriva una specie di ricetta della felicità. Qual è la sua?
«Siamo sempre tutti concentrati sulle nostre vite e sullo scopo di realizzare noi stessi. Anche io sono stato così, completamente preso dalla mia autorealizzazione. Poi, a un certo punto, ho compreso che l'auto-realizzazione non è la cosa più importante e che mettersi al servizio degli altri arricchisce molto di più che pensare ad arricchire se stessi».
Come lo ha capito?
«Me lo hanno insegnato i miei film, Perfect days in particolare, perché il protagonista vive al servizio degli altri ed è molto più felice di tante persone ricchissime, potenti. Penso anche al fotografo brasiliano Salgado, protagonista del mio documentario Il sale della terra. Era laureato in economia, ma ha scelto di abbandonare tutto per dedicare la sua esistenza alle persone che soffrono, nel tentativo di far ascoltare al mondo la loro voce».
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Agli ultimi European Films Awards, nati per celebrare l'unità artistica europea, ha ricevuto il Premio alla carriera. Cosa rappresenta per lei l'Europa?
«Credo che, tra i problemi dell'Europa unita, ci sia quello di non aver generato nelle persone un forte senso di attaccamento emotivo. E, in questo, il cinema potrebbe fare molto».
In che modo?
«Bisognerebbe rivitalizzare il cinema e ridargli la capacità di emozionare il pubblico. Penso agli Stati Uniti e, in particolare, al sogno americano, un'invenzione che, in realtà, non è mai stata realizzata, eppure, grazie al cinema che l'ha nutrita e supportata, continua a esistere. In Europa non abbiamo fatto niente di simile, e invece dovremmo, riuscendo ad essere più specifici».
Come?
«L'Europa non ha mai raggiunto davvero la sua unità. E questo anche perché la cultura non è mai stata messa al centro di tutto, valorizzata come dovrebbe. Succede, al contrario, che, nei programmi finanziari europei, la cultura sia la prima voce ad essere penalizzata. Basta guardare il mio Paese, la Germania. Tagliare la cultura è l'ultima cosa che andrebbe fatta nei momenti di crisi».
Perché?
«Perché la cultura, in tutte le fasi più oscure attraversate dall'umanità, è sempre stata di grande aiuto, proprio perché è in grado di comunicare vitalità. Mai come oggi bisognerebbe rafforzarla, e invece noi siamo facendo esattamente il contrario. L'Europa dovrebbe gloriarsi del suo enorme bagaglio culturale, unico al mondo, ma, se vai a dire una cosa del genere a un uomo politico, stati sicuro che non capirà».
[…] Diceva che i suoi film l'hanno imbarazzata. Come mai?
«E' vero, mi sono sempre sentito un po' a disagio nei confronti dei miei film, come se mi dovessi scusare per il fatto che la gente abbia scelto di spendere dei soldi per vederli».
"Il cielo sopra Berlino" è uno dei suoi successi più grandi. Cosa ricorda di quell'esperienza?
«Non potrò mai dimenticare Bruno Ganz, la persona più altruista che mi sia capitato di conoscere. Prima di iniziare a girare era disperato, continuava a dirmi di non sapere proprio da che parte cominciare. Doveva fare un angelo, ripeteva "come faccio a interpretare questo tizio? Non ha una biografia, non ha un'infanzia infelice, come faccio?". Anche io ero un po' perso, non sapevo bene come rispondergli, a un certo punto gli ho detto "devi fare semplicemente uno che ama le persone". Bruno mi guardò un attimo e poi disse "bene. Su questo posso lavorare". E lo ha fatto». […]
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