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Marco Molendini per www.ilmessaggero.it
L'intrattenitore in musica oggi è una specie estinta. A spopolare sono i gladiatori, dominatori di stadi e arene, veri e propri maniscalchi che abbagliano, assordano, costruiscono spettacoli macchinosi.
Robbie Williams, da tempo, prova a rispolverare quella figura antica, lo ha fatto riciclando con convinzione la vecchia etichetta swing in salsa pop e, nel suo ultimo show, lo comunica fin dal titolo che poi è anche il primo pezzo in programma: Let me entertain you, esordio tambureggiante (dopo la non originalissima introduzione coi Carmina Burana) di un concerto di un'ora e mezza che ieri ha popolato Capannelle e il festival Poste pay Rock in Roma con circa dodicimila accaldatissimi fan.
Un'ora e mezza dove sfilano un bel po' delle hit della sua carriera e svariate cover sparse prese qua e là, dai Queen a R.Kelly, da Frank Sinatra all'ormai consueto Cab Calloway di Minnie the Moocher, lontano eroe del Cotton Club, pioniere degli entertainer.
Uno spettacolo sicuramente costruito, che scorre con professionalità e dove l'ex Take That (che si presenta in scena con ciuffo biondo con pennacchio, una giacca da frac e gilè sul torso nudo che poi sfodera con tutto il corredo di bicipiti tatuati, guanti bianchi e pantaloni pieni di zip) mette di tutto, perfino troppo.
Un torrone musicale pieno di sapori e dove prova, senza alcuna remora, a misurarsi chissà perchè, con grandi campioni della voce. E, se nei dischi gli è andata benissimo, come quando ha provato a fare il verso a Sinatra, (nei bis recupera uno dei pezzi più impegnativi come My way, che canta in modo leggero senza mai spingere), qui si impegna anche sul terreno spericolato di Freddie Mercury, prima con We will rock you e poi con Bohemian rhapsody, dove c'è addirittura una breve sovrapposizione con il cantante dei Queen.
Robbie ha una voce piacevole, aggraziata, un bel timbro, ma le sue corde vocali non hanno un'estensione particolare anche se riesce sempre e comunque a compensare l'intonazione con la tecnica. Il confronto, così, resta improbo. Ed è curioso che, in realtà, il quarantunenne ex bad boy di Stoke on Trent indugi molto nel cantare pezzi altrui, passando anche per I love rock 'n'roll degli Arrows, band inglese degli anni 70, e per Royals della neozelandese Lorde.
Se la cava, non c'è dubbio, fatti i debiti distinguo. Ma la parte più convincente dello show è un'altra. Anzi sono due.
La prima è quella spettacolare, dove il cantante, formidabile performer e intrattenitore che viene anche da una scuola, quella dei Take That, che gli ha insegnato come darsi da fare su tutta la linea, mostra sicuramente la sua sfacciata capacità di stare sul palco: il concerto è costruito con forte senso scenico, con numeri di danza (c'è una piccola compagnia di ballo a fargli da contorno), invenzioni sceniche (a un certo punto appare indossando una curiosa gonna) battute (a un certo punto perfino gridando un «campioni del mondo» che non c'entra nulla).
E, poi, se i confronti vocali con i grandi del passato gli permettono di acquisire un po' di benemerenze riflesse, pur nella difficoltà del confronto (se non altro per il coraggio), a fare il resto, c'è la parte in cui Robbie fa Williams, ossia se stesso e si cimenta con quello che ha messo da parte in una vita, così entra nei suoi panni, stringe il filo con il pubblico, si trova più a suo agio passando da Feel (che viene da Escapology anno 2002) a Millennium (che risale al 1998),
come la ballabilissima Rock Dj (anno 2010), come Candy che sa tanto di anni Sessanta (uscita nel 2012), come She's the one, come The road to Mandalay e come Angels, la canzone che nel 97 ha segnato gli inizi della sua carriera solista e che viene usata come finale dello show, stavolta cantata a cappella. Il bis con Robbie Williams e il suo show è per il 23 al Summer fest di Lucca.
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