Quirino Conti per Dagospia
Anna Wintour al Met Gala
L’innocente, esterofilo e atlantista cultore delle devozioni – e connesse liturgie – yankee, avrà di certo assunto come un dovere particolarmente “cool” l’uso della santificazione di quelle sacrosante festività made in USA che solo Alberto Sordi nel suo americano da “marana” avrebbe saputo pronunciare adeguatamente male: naturalmente il Thanksgiving Day e, imprescindibilmente, la notte di Halloween, il benedetto Columbus Day e, chissà mai perché qui da noi, anche l’Independence Day (!).
Soprattutto a motivo dei costosissimi studi in lingua delle tante ostinate bionde rifatte, del genere “Roma-Nord and Parioli” (ma anche “Milano-San Babila and dintorni”), mai rassegnate dopo quella formazione a doversi ridurre in remoto dalla tanto amata seconda patria d’oltreoceano.
Anna Wintour al Met Gala
Di recente, tale imprescindibile calendario si è arricchito del culto della già venerabile Anna Wintour, plenipotenziaria di tutta la Moda presente, passata e futura (e probabilmente anche del prossimo multiverso), che, dall’interno del suo casco integrale color castagna, sembra essere divenuta non solo il terrore di ogni stilista vivente – la vergogna dei trapassati e la atterrente profezia dei futuri – ma anche il motore immobile di un ennesimo festone del lusso conosciuto come Met Gala (quest’anno, inaugurale della mostra “In America: An Anthology of Fashion” quale esplorazione autarchica del codici estetici del cosiddetto ”American Style”).
QUIRINO CONTI
Dunque, abiti e accessori che, trattati come marmi cicladici, dal XVIII secolo a oggi vengono presentati dentro installazioni ambientate in “stanze d’epoca”. Il tutto condito con cinematografici “freeze frames” prodotti in collaborazione con registi notoriamente non insensibili ai cospicui budget della Moda (da Sofia Coppola a Martin Scorsese).
Insomma, la festa del niente; e ancora una volta, dell’obbligo europeo a genuflettersi con ammirazione dinanzi a pessime copiature del suo Grande Stile, così come ai soliti, ridanciani giocherelli pop. Frammenti folk di frammenti country. E come già fu dinanzi al Cinema e ad artisti obbligatoriamente d’importazione, dopo il patto di sangue contrattato con i Liberatori (basi militari comprese).
Anna Wintour al Met Gala
Eppure, nel corso degli anni ’50 qualcosa di veramente unico e straordinario venne da quello sconfinato Paese. Attraverso due libri.
Tralasciando il secondo per ovvia sazietà (chi non conosce Kerouac e il suo “On the Road”, fortuna di Fernanda Pivano e orgoglio e giustificazione per ogni strafatto del Creato?), il primo a uscire era stato, nel ’48, “The Seven Storey Mountain” di Thomas Merton (l’altro uscirà nel ’57).
Thomas Merton
Ma chi era costui? Merton era un monaco trappista che, dopo una vita senza freni, dal Kentucky, nei pressi di Louisville, al chiuso di una ferrea clausura, descrisse l’Europa e l’America nelle loro rispettive forme: e dunque, la bellezza e la fatalità di rivestirsene.
Il libro, che allora sconvolse il suo tempo e soprattutto New York per la severità con la quale veniva vivisezionata, potrebbe ora rappresentare un solido controcanto per una lettura meno superficiale dell’attuale indagine esplorativa impostata nell’allestimento del Met. Quasi un Truman Capote di “Preghiere esaudite”, questa magnifica autobiografia rivelò per sempre la doppia natura di quella complessa nazione.
Thomas Merton
Ebbene, nelle sue pagine, dopo svariati decenni, si può forse rintracciare ancora proprio ciò che con il Met Gala la Wintour – e con lei tutta la stampa del “tappeto rosso” – sembra non essere ancora riuscita a mettere a fuoco.
Nel racconto di Merton si parla tra l’altro di un pilota che, arrivato alla Trappa per restarci, nei primi giorni, da probando, con ancora indosso i propri abiti, finiva per risultare all’osservazione dell’autore uno sgarro disturbante dentro una massa di decine di cocolle bianche assiepate in Coro.
kim kardashian con il vestito di marilyn al met gala 4
E di come nei giorni successivi, concesso anche a lui, da novizio, lo stile di quell’unificante abito monastico, solo allora finalmente poté naufragare nella quiete di uno Stile condiviso; potendo essere se stesso, riconciliato con le sue più profonde aspirazioni.
Giacché questo è il destino del vero Stile (che sia Antico, Moderno o Contemporaneo): ricomporre le Civiltà in un “corpo”, in un pensiero, in una lingua coagulante e narrativa del Tempo. Intanto che l’anima di ciascuno, rispecchiandosi in quella forma e ritrovandosi in essa, proprio in questo si appropria della sua libertà e della sua indipendenza.
Dunque, in una aspirazione all’unicità che, nella monocromia di forme e misure (Rinascimento, Manierismo, Barocco ecc.), rende di una particolare cangianza della vita l’espressione del meglio di sé.
chiara ferragni e fedez al met gala 2022 11
Con un Pensiero dominante: che anche nella superficiale arrendevolezza dei nostri giorni, in quella esemplificazione qualcuno possa trovare la più esplicita ragione e la consapevole contemporaneità del proprio “moderno”. Si pensi alla tenacia della forma Chanel, a Saint Laurent, Armani, o Prada. Formulazioni di un pensiero gratificante e unificante. Questa è la Moda.
Guai, infatti, nello Stile e per la storia degli Stili, a essere degli isolati forzati dell’originalità e del capriccio. La Moda infatti, come una temperatura che tutto sovrasta, è omologante per destino; mentre prescrive un sentimento armonico e concordante.
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Sarebbe stato meglio allora se Wintour & Co., dopo una sosta di osservazione a una metaforica Trappa del Getsemani, fossero riusciti a rivelarci il molto e il di più di un Paese che hanno voluto raccontarci per copiature europeizzanti e immagini pop à la “Happy Days”.